La patria è sempre dove si prospera. Francesco Micheli, nato a Parma nel 1937, ha prosperato come pochi a Milano. Qualche volta, questa prosperità l’ha condivisa con i suoi amici, che in prevalenza non appartengono al mondo del business. Sono musicisti, artisti, intellettuali: in genere borghesia “riflessiva” impegnata a sinistra e spesso in buoni rapporti con la magistratura. Lui stesso, figlio del pianista Umberto che lasciò l’Emilia per venire a insegnare solfeggio al Conservatorio di Milano, suona il pianoforte.
Degli amici che ha nel mondo degli affari non ha mai fatto nomi «per non far torto a nessuno», disse una volta. Ma sono noti i suoi legami con i potentati economici che hanno prosperato anche loro all’ombra della Madonnina. A partire dai Ligresti, la famiglia di costruttori-immobiliaristi-assicuratori dei quali Micheli è lo storico consulente e con i quali ha concluso più di un affare. Nel 2002 li aiutò ad eludere l’obbligo di lanciare l’Opa sulla Fondiaria, con un’operazione in derivati cui presero parte anche Jp Morgan, Interbanca, Commerzbank e la Mittel. Ma con il Sole24Ore fu categorico: «Voglio però precisare che non si tratta di un portage… è stata un’operazione non concertata, dove ciascuno di noi agisce per proprio conto, in piena trasparenza, né in aiuto di uno né per colpire un altro». E in piena trasparenza, appena sei mesi dopo, le azioni Fondiaria ritornarono nella disponibilità dei Ligresti.
Anche se oggi il suo mestiere principale è gestire l’immenso patrimonio personale accumulato negli anni, Micheli coltiva una fitta rete di rapporti istituzionali (vedi qui un elenco degli incarichi), con un’attenzione speciale alle istituzioni culturali milanesi e propaggini che arrivano a Torino e a Firenze. Siede anche nel consiglio di amministrazione del Teatro alla Scala, in quello della Filarmonica scaligera e nella Fondazione Pier Lombardo.
Quanto al mondo della politica, il cuore di Micheli batte per antica consuetudine a sinistra (aveva anche sposato in prime nozze la figlia di uno storico esponente della sinistra socialista, Lelio Basso). Nelle frequentazioni e alleanze è quanto di più ecumenico si possa immaginare. «Ha letto bene Dante, lui fa parte per se stesso», ironizza con una punta di invidia chi ne conosce abilità negli affari, capacità relazionale e spessore culturale. Ma si sbaglierebbe a considerarlo un cinico, avvertono, «si spende nelle iniziative culturali con la stessa passione con cui fa soldi a palate». Ha finanziato il Manifesto e la rivista Reset.
Per uno cresciuto alla scuola di Aldo Ravelli è il minimo. Ravelli fu l’agente di Borsa che nella Milano del dopoguerra faceva e disfaceva i giochi a Piazza Affari (leggi qui il ritratto-necrologio che uscì sul Corriere). Era animato, come ebbe a dire l’allievo Micheli, da «sinistrismo sentimentale». Da un lato faceva i soldi con le famiglie del vecchio capitalismo italiano, dall’altro arrivò a finanziare anche Bettino Craxi «per fede e non in cambio di favori», scrisse il Corriere.
Perciò, cuore a parte, i rapporti di Micheli con gli ultimi due sindaci di Milano, Gabriele Albertini e Letizia Moratti, sono stati qualcosa di molto più profondo che cortesie istituzionali. Senza l’appoggio decisivo dei quali né l’operazione e.Biscom/Fastweb, che gli ha reso circa un miliardo di euro, né il festival Mi.To Settembre Musica, che lo ha consacrato definitivamente a grande mecenate delle città, sarebbero andati oltre la fase di ideazione. Negli anni del centrodestra, è stato anche presidente del Conservatorio di Milano, fino al 2007, quando lascia fra le polemiche.
A Milano, intanto, il vento è cambiato. Lui sì se l’aspettava, ha detto quando è stato chiaro chi fosse il vincitore. Ma va riconosciuto che, nel suo lungimirante ecumenismo, ha organizzato cene elettorali sia per la Moratti sia per lo sfidante Giuliano Pisapia. Così il 30 maggio, nelle stesse ore in cui i milanesi accorrevano in piazza Duomo per festeggiare la vittoria di Pisapia, il finanziere ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera. Un omaggio al nuovo sindaco, definito come esponente della «vecchia borghesia socialista di una volta. Quella tipica della città». Proprio come lui: insomma, una chiamata di comune appartenenza.
Micheli non è uno che le manda a dire agli amici. Ma se sceglie di farlo, allora lo fa in grande stile: tramite i giornali. «Milano va resa più bella – è la sua petizione a Pisapia – purché non la si lasci nelle mani di immobiliaristi spregiudicati». Parole che hanno scatenato ironie e sarcasmo sull’identità dei palazzinari additati all’ostracismo dalla Milano che cambia. Si riferiva ai Ligresti, suoi storici clienti-alleati-soci? Micheli e il figlio Carlo hanno insieme il 2,3% della Premafin, la holding dei Ligresti. O si riferiva invece al colosso americano Hines, che nel capoluogo lombarda sta sviluppando l’area di Porta Nuova? Lo scorso ottobre Micheli ha rilevato il 5% di Hines Italia Sgr e in contemporanea nell’azionariato della società è entrato anche il gruppo Fondiaria-Sai (controllato dai Ligresti via Premafin) con il 18%, oltre a Manfredi Catella (10%), che è presidente e amministratore delegato della Sgr. O forse stava parlando di Citylife, il super progetto di sviluppo immobiliare dell’ex quartiere Fiera di Milano, dove sono in campo gli interessi delle Generali e di Allianz? Più di vent’anni fa, il finanziere milanese aiutò quest’ultima a prendere il controllo della Ras, e i rapporti sono rimasti buoni, tanto che ancora oggi è “consigliere indipendente” nella filiale italiana della compagnia tedesca.
Da questi rapporti non si fa condizionare, rivendica il finanziere che fece fortuna nella Milano da bere e che, a differenza di altri, ha attraversato indenne tutte le stagioni politiche, trovando sempre il modo di prosperare. «Quel che posso affermare con certezza è che chi mi è amico sa la mia assoluta indipendenza e la mia assoluta asetticità di fronte a qualsiasi pressione», dichiarò al Mondo, nel 1999. A quei tempi era consulente e rappresentante in Italia della banca d’affari Donaldson, Lufkin & Jenrette, e ideò «parallelemente alla Lehman Brothers, l’Opa da 100 mila miliardi di lire per la conquista della Telecom». Era quella che lo stesso Micheli definì «la coraggiosa e vincente battaglia di Roberto Colaninno»: andò benissimo per gli scalatori – la cosiddetta “razza padana”, con cui Micheli ha fatto diversi affari – ma non per chi ne prese il posto due anni dopo (la Pirelli di Marco Tronchetti Provera, Benetton e il duo bancario Unicredit-Banca Intesa, che subentrarono nel 2001). E andò ancora peggio per la compagnia telefonica.
Di operazioni stellari in Borsa «il finanziere democratico», che a Piazza Affari sfidava l’ordine costituito a suon di lucrose scalate, ne ha fatte tante. Negli anni ’80 ha organizzato appunto la conquista della Ras per Allianz, ma anche il rastrellamento delle azioni Bi-Invest dei Bonomi che permise a Mario Schimberni di prendere il controllo della Montedison, dove Micheli è stato responsabile delle partecipazioni per sei anni ai tempi di Eugenio Cefis; è diventato azionista di riferimento della casa d’aste Finarte, attraverso cui si è impegnato nella battaglia per il controllo di Interbanca, conclusa poi con la redditizia cessione della merchant bank alla Banca di Roma di Cesare Geronzi.
Il doppio capolavoro di una vita, però, data 1999. Da un lato, la scalata a Telecom, che al termine della “coraggiosa battaglia” si ritrovò oberata di debiti, che ancora oggi continuano a pesare; dall’altro, la fondazione del principale concorrente dell’ex monopolista, e.Biscom/Fastweb, messa in piedi insieme con il manager ex Omnitel, Silvio Scaglia. I due convincono l’allora sindaco Gabriele Albertini e i vertici dell’Aem che porteranno l’eldorado tecnologico a Milano. La proposta è di valorizzare Citytel, la controllata di Aem (oggi A2a) che ha già posato 80 chilometri di fibra ottica in città e ne ha altri 400 da posare. E.Biscom entra così con 17 miliardi (poco più di 8 milioni di euro) nella società ridenominata Metroweb, e ottiene il 33%, mentre il 67% resta in mano alla Aem. Aldo Scarselli, capo di gabinetto di Albertini, diventa presidente di Metroweb. Contemporaneamente, viene fondata Fastweb, che si occuperà di vendere servizi tlc di banda larga: e.Biscom investe altri 18 miliardi per il 60% della nuova compagnia di telecomunicazioni, mentre il 40% va ad Aem. Nelle lodi e nei ringraziamenti Micheli non si risparmia: «Non era una scelta obbligata, né ovvia. Il sindaco Albertini ha avuto coraggio. È il segno che a Milano, a prescindere dal colore politico, sta succedendo qualcosa di nuovo, e non lo affermo solo in base a questa mia esperienza».
L’anno dopo, mentre la new economy impazza,la società di Scaglia e Micheli va in Borsa. In quel momento di follia collettiva si prospettano plusvalenze d’oro, le richieste fioccano, i titoli vengono assegnati per sorteggio. Micheli, che pur si vanta di aver voltato le spalle ai preti sin dai tempi dell’adolescenza, non ha dimenticato del tutto il catechismo: si ricorda degli amici e se ne procura di nuovi con la ricchezza che sta per realizzare. A 197 familiari e amici, «scelti con criterio meramente discrezionale dal management della societa», vengono riservate quasi 80 mila azioni: ci sono parenti ma anche noti esponenti della borghesia milanese di sinistra, istituzioni culturali.
Nel giorno del debutto e.Biscom raggiunge una capitalizzazione di 10 miliardi (222 euro per azione) più della Fiat e della stessa Aem. Quando la bolla si sgonfia, la società, che successivamente venderà la quota in Metroweb, ne segue il destino, ma per Micheli è l’affare della vita: si stima che abbia guadagnato almeno 650 milioni di euro, cui vanno aggiunte le quote dei figli, Carlo e Andrea (stimati in circa 500 milioni).
Insieme al fiuto, dalla sua Micheli ha il tempismo: quando vede l’affare, dicono, ci si butta, ma soprattutto ne sa uscire per tempo. E da Fastweb lui esce nel 2003, anche se il figlio Carlo ci resta altri due anni. Così quando nel 2010 scoppia lo scandalo delle truffa carosello sull’Iva , lui può legittimamente dire di avere preso le distanze per tempo. Scaglia, che aveva venduto a Swisscom nel 2007 (il prezzo si è abbassato a 47 euro), ne viene invece travolto. Micheli calibra le parole: da un lato, «lasciai perché non condividevo certe scelte», dall’altro esclude la consapevolezza di “contatti malavitosi” dell’ex socio. In ogni caso, commenta citando una battuta che Enrico Cuccia fece su di lui, «apparteniamo a giardini zoologici diversi». Un contatto, però, resta. Micheli ottiene da Fastweb, secondo quanto rivelato da il Giornale, un contratto di consulenza di 600mila euro l’anno (cessato nel 2008) e 60 ore di aereo privato. Oltre a un’auto e a un autista «gradito al signor Francesco Micheli», con i «pass relativi alle corsie cittadine preferenziali».
C’è chi nota il diverso trattamento riservato ai due fondatori di e.Biscom-Fastweb. Sempre il Giornale scrive: «La sensazione è che i magistrati abbiano adottato una favorevole (e corretta) analisi della posizione dei Micheli in tutta la questione Fastweb. Mentre invece per Scaglia, e soprattutto per i manager che lavoravano per lui come Mario Rossetti, sono stati invece usati criteri di abnorme severità giudiziaria». All’epoca dei fatti Micheli jr. era nel cda di Fastweb e come presidente del comitato per l’audit interno aveva rilevato «la regolarità delle attività in esame». Ai pm della Procura di Roma la spiega così: «Non sono mai stato in grado di rendermi conto fino a che punto fossero o meno regolari anche perché tengo a precisare che io sono un ingegnere informatico».
È la riprova del tempismo di Micheli: in un film western, lui sarebbe il gentiluomo che esce con calma dal saloon prima dell’inizio della sparatoria. Si prenda, per esempio, l’estate della scalate bancarie, nel 2005. È da tempo nel capitale di Antonveneta e ha sindacato lo 0,6% nella fiduciaria Deltaerre. Sul finire del 2004, il patto di sindacato viene disdettato, e appare chiaro che la Bpl di Gianpiero Fiorani ha iniziato a scalare la banca padovana. I titolari del 10% in capo alla fiduciaria sono divisi: chi è per l’Abn Amro, chi per Fiorani. Fra questi ultimi c’è il banchiere di Mediolanum, Ennio Doris, ma anche, viene scritto, Francesco Micheli. Lui sta defilato, temporaggia, più tardi minimizza: «Avevo un po’ di azioni Antonveneta, eredità di antiche operazioni, ma sono stato fra i primi a vendere e a uscire da questa storia, che non mi interessava».
Quando scoppia il finimondo giudiziario, lui è già al largo. Di soldi ne ha fatti tanti, e gioca ancora la carta della tecnologia con Genextra. Questa volta si tratta di biotech e biomedicina e con lui c’è un nome di peso: l’oncologo Umberto Veronesi. Il sogno di bissare il trionfo di e.Biscom con la nuova operazione di venture capital finora non si è realizzato, le Borse non sono più quelle di una volta.
A Milano, intanto, nel 2006 si chiude l’era Albertini e arriva Letizia Moratti. Pochi mesi dopo, viene annunciata la fusione bancaria dell’anno, quella fra Intesa e Sanpaolo. Neanche a farlo apposta, Micheli si inventa il festival Mi.To, la kermesse culturale di alto profilo sull’asse Torino-Milano, perfetta per assecondare i vagheggiamenti sulla metropoli con due teste, unite dall’alta velocità.
Così, quando dopo quasi vent’anni di centrodestra, il governo della città di Milano cambia colore, lui è pronto a benedire il rinnovamento e ricordare che lui c’è. Opportunismo di un colto gattopardo lombardo-emiliano? In realtà, di accreditarsi Micheli non ha poi così bisogno. A destra come a sinistra ha amici a iosa. Bruno Tabacci, neo assessore al bilancio nella giunta Pisapia, è una sua vecchia conoscenza. Bruno Ermolli, il super consulente finanziario e plenipotenziario del premier Berlusconi nella città, è un amico e un assiduo frequentatore di casa Micheli. Entrambi siedono fianco a fianco nel cda della Scala, e insieme sono stati i grandi sponsor dell’ex sindaco.
Considerato il sindaco-ombra dell’era Moratti, Ermolli è anche molto influente dentrola Camera di commercio di Milano, per conto della quale presiede la controllata Promos, specializzata nella promozione delle imprese milanesi all’estero. Quando due anni fa la Camera meneghina ha costituito la Futurimpresa Sgr, per investire in Pmi eccellenti, Ermolli ha voluto che fosse proprio Micheli a presiederla. Non è una questione di amicizia personale, sia chiaro, anche se fra i due corre molta stima. A Milano il potere si gestisce con spirito bipartisan, o se si preferisce gli affari si fanno con un’ottica “di sistema”.
E pazienza, se tre mesi fa, la Italgo, una società specializzata in sicurezza aziendale e partecipata da Micheli, è finita dentro l’inchiesta della Procura di Napoli sulla presunta società segreta ribattezzata “P4”. Secondo l’accusa, la P4 sarebbe riuscita a ottenere appalti milionari e a interferire nelle nomine pubbliche. Micheli non è indagato, ma i pm vogliono capire i suoi rapporti con Luigi Bisignani, ritenuto uno snodo centrale nella rete di affari e relazioni. L’8 marzo scorso gli uffici milanesi di Micheli sono stati perquisiti dalla Guardia di Finanza. Stavolta, a differenza di come accade per le sue belle cene con ospiti di riguardo, non c’erano i paparazzi di Dagospia a immortalare il disturbo.