Piazza Tahrir, al Cairo somiglia sempre più a una polveriera. Dopo gli scontri di ieri, che hanno provocato oltre 1.036 feriti, sembra che la situazione sia tornata calma. Ma per poco. I nervi sono ancora scoperti: diversi gruppi in piazza hanno continuano a discutere per tutto il resto della giornata, mentre un carro armato ha dovuto bloccare la strada per il ministero dell’Interno.
Tutto è cominciato la sera di martedì, di fronte al teatro di Aguza. Dentro, si stava tenendo una cerimonia in memoria dei “martiri” della rivoluzione, i dissidenti uccisi negli scontri di gennaio, con la presenza di parenti e familiari. Nel gruppo erano presenti anche parenti e familiari. Fuori dal teatro, le proteste di altri familiari, esclusi dalla celebrazione e che chiedevano di entrare.
Con l’intervento della polizia, la tensione è salita: si è formata una vera e propria rivolta, con lanci di sassi e vetri fino a una marcia su piazza Tahrir, la polveriera. Ma anche passaggio per arrivare alla sede del ministero degli interni.
Gli slogan erano chiari: «Basta con questo governo», cantavano, chiedendo le dimissioni di Mohammed Hussein Tantawi, il generale che aveva preso il posto di Mubarak dopo la sua caduta. I poliziotti rispondono sparando fumogeni e proiettili di gomma sulla folla. A fine giornata, i feriti sono un migliaio, secondo il ministro egiziano della salute. Ma la responsabilità, secondo il Consiglio Supremo delle Forze Armate, è da attribuire a gruppi di violenti che «mirano a destabilizzare il Paese». Gli scontri sono stati un «piano premeditato». Una versione ribadita anche dal primo ministro Essam Sharaf, che ha sottolineato come la polizia «abbia risposto alla violenza» e non l’abbia provocata. Scontri creati ad arte, secondo Ayman Nour, candidato alle presidenziali di novembre: i responsabili sarebbero «seguaci di Mubarak».
Ma, alla base delle violenze, i nodi da sciogliere sono ancora complessi. Agitare il fantasma dell’ex-presidente per mantenere l’unità tra esercito e popolazione, forse, non basta più. E, anche se la moglie di Mubarak è stata iscritta nel registro degli indagati, insieme a Ibrahim Soliman, ex ministro dell’Edilizia pubblica, e gli imprenditori Ahmed Fouad Abdel Moez e Adel Attia per abuso d’ufficio e concussione, sono ancora molti i punti di scontento. Punire i membri del vecchio regime non sembra sufficiente: si deve cambiare, e il governo guidato dai militari appare troppo lento nell’imboccare la strada delle riforme.
Una situazione su cui perfino il premier, Essam Sharaf, ha difficoltà a intervenire: la sua richiesta di rimpasto di governo è stata respinta. Sharaf voleva cambiare sette ministri, scontento del loro operato e che giudicava «non in grado di portare avanti gli obiettivi della Rivoluzione di gennaio». Di sicuro, i ministri, considerati vicini al vecchio partito di Mubarak, sono contrari allo scioglimento delle amministrazioni locali, nominate da Mubarak e dichiarate fuorilegge dalla Corte amministrativa egiziana. La sentenza è di due giorni fa e accoglie rivendicazioni portate avanti dalla rivolta. Però è ancora in primo grado, e si può ancora ricorrere.
Ma anche sul piano simbolico, il vecchio raìs non è ancora scomparso. La pressione di suoi supporter, radunati a centinaia di fronte alla corte d’appello del Cairo, ha fatto slittare a luglio un’altra sentenza, che decideva sulla cancellazione del nome Mubarak da strade, piazze e scuole. Motivo? Mubarak è stato, nel bene e nel male, un personaggio importante del Paese. Togliere il suo nome dai luoghi pubblici sarebbe stato inopportuno.
In una cappa di incertezza, i passi verso la democrazia sono sempre meno sicuri. E lo spostamento delle elezioni parlamentari da luglio a settembre, giudicato positivo perché permette ai partiti di opposizione di organizzarsi (ed evitare la supremazia, alle urne, di Libertà e Giustizia, emanazione dell’altro spettro, i Fratelli Musulmani), forse non sarà sufficiente. Come è, del resto, nebbia fitta sulla riforma della Costituzione, di cui ci si occuperà dopo le presidenziali. Il persistere delle condizioni pre-rivolta sembra il motivo, sotterraneo, delle continue proteste che accendono piazza Tahrir.
Ma non solo: in strada sono scesi ad Alessandria. La manifestazione è cominciata ieri, e prosegue oggi. Il rinvio della sentenza per la morte di Khaled Said, il giovane attivista e blogger di Alessandria, torturato e ucciso l’anno scorso dalla polizia di Mubarak, ha innervosito gli animi. Said, con la sua morte, è simbolo dello spirito della rivolta. Fuori dal tribunale, i cori sembrano cantare un malcontento più profondo, e riecheggiano la capitale: «Ci prendete in giro? Non è cambiato niente». La sentenza è stata rinviata a settembre. Il motivo sarebbe che, di fronte a nuove prove, il capo d’imputazione per Mahmoud Alfallah e Awaad Elmokhber, i due poliziotti implicati, potrebbe diventare più grave. Da abuso di forza, a tortura e omicidio. Una cosa che, in teoria, sembra decisa da criteri di giustizia. Ma la diffidenza, in Egitto, resta forte, e anche in questo caso la lentezza del processo rimane sospetta.