“Questa riforma fiscale per ora non vuol dire nulla”

“Questa riforma fiscale per ora non vuol dire nulla”

Meno aliquote, meno tasse. Ma anche meno agevolazioni. Secondo le linee direttive delineate ieri dal ministro dell’economia Giulio Tremonti, la riforma fiscale si farà. I tempi, forse, non saranno brevi: si pensa che ci voglia almeno un anno per la prima tranche. Ma l’obiettivo è completarla nel 2013.

Sull’efficacia, però, i dubbi si fanno consistenti. «Per così come viene presentata, la riforma non significa proprio nulla», commenta Maria Cecilia Guerra, professoressa dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e redattrice de Lavoce.info. Con lei, è d’accordo Alberto Zanardi, professore di Scienze delle Finanze all’Università di Bologna, che la definisce «sfuggente», e aggiunge: «È difficile dire quanto sia di ampio respiro, o se si tratta invece di una serie di aggiustamenti marginali». Una riforma ancora poco chiara. «Gli spazi di manovra, al momento, sono piuttosto ristretti. E ridurre la pressione fiscale non è una cosa possibile» spiega Guerra.

Andando con ordine, i punti principali enunciati dal ministro sono tre. Zanardi li elenca: «La diminuzione delle aliquote, che passerebbero da tre a cinque, il cosiddetto “disboscamento della giungla” di detrazioni e deduzioni», e infine «si può considerare anche lo scambio, lo switching tra Irpef e Iva, con riduzione del primo a vantaggio del secondo».

Cominciamo dal primo, cioè le aliquote. «Una riduzione di numero. Tre aliquote, al 20%, al 30% e al 40%. Nelle intenzioni o almeno nelle dichiarazioni di Tremonti, dovrebbe snellire il meccanismo tributario», chiosa Zanardi. Come funzionerà, però, è ancora tutta da capire. Nemmeno la professoressa Guerra lo sa. «Certo che no. Dire che le aliquote siano tre invece che cinque, ad esempio, non vuole dire nulla. Innanzitutto, non è sinonimo di semplificazione, come vorrebbe Tremonti». E perché? «Perché fino a quando non si hanno i dati sugli scaglioni di reddito che si intendono adottare, non si possono fare calcoli».

L’unica cosa indicativa, continua la professoressa, è il fatto che Tremonti abbia sempre pensato a un sistema a tre aliquote, come dimostra il suo progetto nel 1994, poi affossato dalla caduta del governo e la sua riproposizione nel 2003 e nel 2008. «Un sistema che, da solo, non ha significato: vanno considerate anche le detrazioni, che sono imprescindibili per definire il gettito fiscale», spiega Zanardi. «E al momento non sono ancora state stabilite, e immagino ne stiano discutendo ancora».

Detrazioni e deduzioni sono nel mirino del ministro: ne ha contate 471, per circa 160 miliardi di gettito. «Ma vanno calibrate. Di quali deduzioni si parla? Ad esempio i carichi famigliari. È vero, sono uno sconto fiscale. Ma non sono bagattelle, servono, e incidono. Se va tagliato, il gettito fiscale deve essere però equilibrato dalle aliquote, ma non sembra semplice».

Sulla questione, Guerra è più battagliera. «Secondo me non sa nemmeno lui quali detrazioni tagliare. È una cosa complessa, anche dal punto di vista dell’immagine politica. Se pensa solo alla cedolare secca, la hanno introdotta loro». Ma non solo: «Le detrazioni e le deduzioni funzionano su tutti i tre livelli del sistema. Comunale, Regionale e Nazionale. Non basta dire che si mettono tre aliquote e che la situazione è più trasparente. Si deve lavorare su tutti i livelli, armonizzarli». E queste non sono certo cose che si decidono in una notte, aggiunge.

E lo scambio Iva-Irpef? Secondo Zanardi, sarebbe una scelta studiata per dare una boccata d’ossigeno all’occupazione: «Meno Irpef, in teoria. E più Iva. In questo modo si aumenta la base imponibile. Perché, anche se riduce la pressione fiscale sul lavoro dipendente, la compensa trasferendola sui consumi. “Dalle persone alle cose”, come dice Tremonti. Un modo che permette di ottenere lo stesso gettito, in teoria, ma senza gravare sulle imprese, che sarebbero disposte a investire allargandosi e, di conseguenza, aumentando le assunzioni. Cioè, l’occupazione». Un meccanismo che si riduce «a un gioco a somma zero», come dice Zanardi.

Alcune controindicazioni però, ci sono. «Si tratta di un’imposta regolata a livello europeo. La forchetta entro cui muovere le sue aliquote non è ampia. Per cui, anche in questo caso, lo spazio di manovra sarebbe ridotto. Non a caso si passerebbe dal 10% all’11%, o dal 20% al 21%». Ma non solo. «Se l’Irpef è un’imposta progressiva, l’Iva è regressiva» aggiunge Guerra. « E potrebbe avere effetti negativi sui meno abbienti. Chi possiede meno reddito è svantaggiato, di fronte all’aumento del costo dei consumi», continua la studiosa. Anche in questo caso, la si dovrebbe bilanciare stabilendo classi di reddito equilibrate.

«E ancora, dal punto di vista del commercio, colpirebbe il settore delle importazioni, perché l’Iva sul bene agisce nel territorio d’arrivo, e non in quello di provenienza. Al contrario, ne risulterebbero avvantaggiate le esportazioni, perché all’estero l’Iva è più bassa». E va aggiunto che «l’Iva è una delle tasse più evase, anzi, è la madre di tutte le evasioni. Perché chi riesce a evaderla nasconde tutto il suo giro d’affari. E, di conseguenza, il suo reddito». Servirebbero strumenti di controllo efficaci, che permetterebbero un’applicazione della legge severa, e il recupero del gettito sottratto con l’evasione.

Ma il punto focale, a detta di entrambi gli studiosi, è il taglio delle spese. Secondo Zanardi, sarebbe l’unico modo per ridurre la pressione fiscale, ma per farle si dovrebbero fare scelte sanguinose. «Qualcosa come 40 o 60 miliardi all’anno, per ottenere un disavanzo close to zero. Ma come si fa? I tagli alle spese vanno pensati». Tagli trasversali? «Sono la scelta più facile per il breve periodo, ma nel giro di pochi anni si trasformano in un boomerang, incidendo sui consumi». L’ipotesi più saggia, secondo Zanardi, «sarebbe intervenire in singoli settori, tagliando gli sprechi. Ma occorrono studi attenti, e soprattutto coraggio. Perché ci si deve opporre a classi con interessi specifici e particolari, che sicuramente si oppongono».

Uno di questi mezzi è «la spending review, cioè la revisione di spesa. Permette di limitare gli sprechi. Ad esempio, nella giustizia, accorpando i tribunali, riguardando le mappe delle circoscrizioni giudiziarie. Ma di manovre del genere ne occorrerebbero dieci, cento. Mille».

Gli fa eco Guerra, che sostiene «l’importanza del settore statale. Che però va guardato con attenzione. Dagli sprechi e dall’evasione può essere recuperato molto, e questa è senza dubbio una delle cose principali da cui si deve cominciare». In ogni caso, come conclude Guerra, una riforma fiscale annunciata «in risposta a sconfitta alle amministrative o a un referendum non è la mossa migliore per occuparsi di questo problema».

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