Luigi Marattin è docente e ricercatore di Economia politica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Bologna. È anche assessore al Bilancio nel Comune di Ferrara per il Pd. Nella sua doppia veste di studioso e amministratore pubblico ha dialogato con noi sul secondo quesito referendario, che propone di abrogare l’«adeguata remunerazione del capitale investito» dai fattori di cui tenere conto per la determinazione della tariffa idrica (vedi infografica).
La legge oggetto di votazione abrogativa parla di “remunerazione del capitale investito”. Che cosa si intende esattamente per capitale investito?
Per “capitale investito” si intende lo stock di beni strumentali (macchinari, impianti, infrastrutture, ecc) che entra nella produzione di qualsiasi bene o servizio. I fattori produttivi materiali impiegati per la produzione sono lavoro e capitale. Il primo viene remunerato dal salario, il secondo dal tasso di interesse. Gli investimenti servono da un lato a mantenere lo stock di capitale esistente (ed evitarne quindi il deprezzamento dovuto, ad esempio, alla scarsa manutenzione), dall’altro ad ampliarlo, per assicurare un maggiore livello quantitativo e qualitativo della produzione. Il servizio idrico integrato è un settore ad alta intensità di capitale: significa che gli investimenti (acquedotti, impianti di depurazione, tubature la distribuzione dell’acqua, fognature) sono una componente preponderante per lo svolgimento del servizio.
È vero che non esiste alcun collegamento fra la remunerazione adeguata del capitale investito garantita e «logiche di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio»?
L’errore concettuale del secondo referendum può forse venire finalmente compreso se si immagina cosa accadrebbe se il quesito proponesse di abolire la remunerazione del lavoro, e non del capitale. Vorrebbe dire che la tariffa del servizio idrico non potrebbe coprire i costi rappresentati dallo stipendio dei lavoratori dell’azienda di servizio pubblico locale (inteso ovviamente come stipendio lordo, più contributi e altri oneri sociali). Facile immaginare che quell’azienda farebbe notevole fatica a trovare personale disposto a lavorare, sapendo di non essere nelle condizioni di far coprire dal prezzo di vendita (=la tariffa) il costo del lavoro. Il ragionamento nel caso del capitale è esattamente identico. Se passasse il secondo referendum, il costo sostenuto dall’azienda (pubblica o privata che sia) per realizzare gli impianti necessari a portare l’acqua in ogni casa non potrebbe essere coperto dalla tariffa. Ne deriverebbe una difficoltà oggettiva a reperire i capitali per costruire tubi e impianti di qualità.
Chi decide il livello di investimento?
Il livello degli investimenti non viene deciso dalle aziende affidatarie del servizio (pubbliche o private che siano), ma dalla Agenzie di Ambito territoriale ottimale (AATO), un organismo composto dai sindaci dei Comuni facenti parte del bacino territoriale di riferimento. Che l’azienda sia comunale o sia una potente multinazionale americana, sono le Agenzie d’ambito a decidere quanti e quali investimenti si devono fare sul territorio, e a controllarne l’effettiva realizzazione. Se ci sono mancanze in questi aspetti, allora è un problema del pubblico, non del privato. Invece di spargere disinformazione, occorrerebbe impegnarsi per ideare un disegno istituzionale ancora più avanzato, per rafforzare il ruolo della regolazione pubblica, ora che le ATO sono in via di abolizione.
Chi controlla che siano stati realizzati, le Agenzie di ambito o la nuova Autorità nazionale di vigilanza sulle risorse idriche?
Uno dei tanti motivi per cui l’approccio del governo è stato sbagliato e maldestro, è proprio la confusione (e il ritardo) con cui si è messo mano alla questione dell’autorità di regolazione. Avrebbe dovuto essere il primo punto di una seria riforma dei servizi pubblici locali, invece è stata inserita all’ultimo momento il mese scorso (ad un anno e mezzo dal decreto Fitto), con molte ambiguità. Tra cui appunto questa: non è chiaro il collegamento tra questa nuova agenzia nazionale e gli ambiti territoriali. Ma è su questo che andrebbero concentrati gli sforzi di riforma, non su quesiti referendari mal posti e che comunque non risolvono il problema.
Il 7% forfettario garantito per un investimento a basso rischio non è troppo alto?
Quando si parla di remunerazione degli investimenti, bisogna tener conto di almeno due cose: il costo di indebitamento delle aziende (spesso più alto, per aziende pubbliche di piccola dimensione) e la dinamica dell’inflazione (per avere una remunerazione reale, non solo nominale), oltre ovviamente alla tassazione. Ad esempio, per un piccolo consorzio di enti locali che si indebita al 5%, con un’inflazione al 2%, la remunerazione del 7% copre esattamente i costi reali di indebitamento. Detto ciò, la percentuale del 7% è forfettaria, e come tutte le cose forfettarie è approssimativa, e può senz’altro essere meglio specificata. Magari ideando una remunerazione variabile, a seconda dell’andamento del costo del credito e dell’inflazione. Ma un conto è ragionare su miglioramenti del sistema, un conto è abolire tout-court ogni sorta di copertura dei costi degli investimenti.
Che cosa succederebbe se il secondo referendum venisse approvato?
Se dovesse passare il secondo referendum, il costo dell’indebitamento non potrebbe essere compreso in bolletta (è appunto questo l’obiettivo dei referendari). Rimangono quindi solo tre possibilità per un’azienda pubblica affidataria del servizio idrico integrato: o aumentare esponenzialmente l’indebitamento, o non fare gli investimenti. Oppure, costringere gli enti locali proprietari a ridurre altre componenti del loro bilancio (o ad alzare le poche leve di tassazione rimaste in capo agli enti) per poter ripianare le perdite delle aziende idriche.
Può fare un esempio?
Poniamo il caso di un piccolo consorzio di enti locali della Brianza, che gestisce il servizio idrico integrato per quei Comuni. Diciamo che ogni anno deve fare 20 milioni di investimenti (tra manutenzione e nuovi impianti), per i quali accende mutui a tasso fisso del 5 per cento. Significa che un milione di euro l’anno (la quota di interessi passivi) non potrà essere coperta dalla tariffa in bolletta. Dopo 10 anni, questo consorzio avrà cumulato una perdita in conto economico di 10 milioni di euro. Se la perdita eccede un terzo del capitale sociale, gli enti proprietari sono costretti a ricapitalizzare (questo ovviamente assumendo che sia consentito al consorzio chiudere in perdita per 10 anni consecutivi). Per ricapitalizzare il consorzio, gli enti locali devono aumentare le uscite al titolo secondo delle spese (“Spese in conto capitale”) le quali sono coperte (oltre che da contributi in conto capitale e alienazioni patrimoniali) da ricorso a indebitamento pubblico. L’approvazione del secondo quesito farebbe danni maggiori alle aziende pubbliche (un paradosso al quale è giusto “inchiodare” i referendari). Per le private (o miste) la situazione ovviamente sarebbe ancora peggiore.
Alcuni sostengono che se il referendum sulla tariffa venisse approvato, non cambierebbe nulla. Poche righe dopo le parole che si vuole abolire, l’articolo 154 ribadisce che deve essere «assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio».
La contraddizione sollevata dai colleghi de Lavoce è senz’altro appropriata. Questa considerazione aggiunge ulteriore confusione alla normativa post-referendum qualora il quesito venisse approvato dagli elettori.
I promotori del referendum sollevano un’obiezione etica ed economica: che non sia giusto fare profitti sull’acqua, che è un bene comune e un monopolio di fatto, e che quindi non abbia senso trasferirlo ai privati.
L’acqua è certamente un bene comune e le infrastrutture per distribuirla sono e resteranno pubbliche: questo è fuori discussione, al di là della propaganda che viene fatta. Ma la gestione del servizio implica processi di natura industriale e investimenti rilevanti.
Come è possibile, con la legge vigente, che residui un profitto contabile, visto che le tariffe, cioè i ricavi delle società affidatarie, sono costruite in modo da rimborsare costi di investimento e di esercizio? Se qualcosa avanza, è perché non si è operato correttamente?
Ci possono essere svariate ragioni. Il capitale può non necessariamente essere preso a prestito ma risultare – ad esempio – da utili reinvestiti o da equity (il capitale di rischio versato dai soci, ndr). Nel primo caso ragioniamo in termini di costo-opportunità – cioè il rendimento che avrei ottenuto con un investimento alternativo –, nel secondo occorre considerare l’esigenza di remunerare gli azionisti distribuendo dividendi. La regolamentazione (nel mondo reale, al di fuori dei modelli teorici) non può certamente mirare al profitto zero, con aziende di queste dimensioni… come si fa ad esempio a controllare per quelle miriadi di fattori che influiscono – positivamente o negativamente – sul margine operativo lordo nell’intervallo di tempo compreso tra la fissazione della tariffa e l’approvazione del bilancio consuntivo? Eventuali economie realizzate durante l’anno (o residui di investimenti non realizzati in esercizio) determinano automaticamente l’emersione di un utile, per non parlare della gestione finanziaria a “valle” del conto economico (totalmente esclusa dalla regolamentazione).