È forse la goccia che fa traboccare il vaso. Goccia d’acqua, ovviamente. Perché il successo del referendum sulla gestione dell’acqua ha avuto diversi sconfitti e diversi vincitori, ma ha anche rappresentato l’ennesimo, forse estremo, dissapore tra il Presidente del Consiglio Berlusconi e la Chiesa cattolica.
Certo non sono stati i vescovi e i cardinali a spingere gli italiani a bocciare il legittimo impedimento e mandare un altro segnale di sfratto all’inquilino di Palazzo Chigi. Anzi, sul quarto quesito referendario le gerarchie ecclesiastiche sono state attentissime a non esporsi. Ma, facendo leva sulle schede relative al nucleare, e, ancora di più, all’acqua, il mondo cattolico è tornato a mobilitarsi. Con l’avallo, se non l’esplicito sostegno, di uomini di Chiesa di primo piano. E con l’effetto di contribuire al raggiungimento di un quorum che suona, al di là del merito delle materie referendarie, come un campanello d’allarme per Berlusconi.
Sarà che il tema si prestava ad un corto circuito lessicale e simbolico con il linguaggio mistico, tanto che i francescani del Convento d’Assisi hanno scomodato San Francesco per motivare la loro intenzione di andare a depositare un “sì” nell’urna («Laudato sii, mi Signore, per sor aqua la quale è molto utile e umile e preziosa e casta…»). Sarà che sono stati archiviati i tempi in cui il cardinale Camillo Ruini invitava a disertare le urne, nel 2005, per boicottare, con successo, il referendum sulla procreazione medicalmente assistita. Fatto è che la galassia cattolica si è data da fare, capillarmente e trasversalmente, per far riuscire il referendum.
Ha iniziato il segretario generale della Cei Mariano Crociata. Fu lui che nel 2009 – sui giornali spuntavano le prime cronache sulle notti ardenti del premier nella villa di Arcore – era partito da Santa Maria Goretti, in un’omelia rimasta epocale, per stigmatizzare il «libertinaggio irresponabile».
Fu il segnale che la Chiesa non stava più in silenzio di fronte agli eccessi di un uomo considerato per anni l’alleato più fedele nella politica italiana. Dopo di lui iniziarono a parlare vescovi uomini di Chiesa. Il direttore di Avvenire Dino Boffo osò chiedere al premier maggiore «sobrietà» e si ritrovò addosso una campagna diffamatoria scatenata dal Giornale della famiglia Berlusconi. Boffo lasciò, scaricato anche dai vertici vaticani, ma lo strappo tra la Chiesa e Berlusconi rimase. Il cardinale Segretario di Stato Bertone si recò all’Aquila per la festa della Perdonanza ma chiese, e ottenne, che Berlusconi desse forfait. E da allora è stato tutta una teoria di piccoli smarcamenti, freddezze crescenti, imbarazzi mal celati degli uomini di Chiesa nei confronti del capo del Governo. Con qualche marcia indietro – fecero scalpore una cordiale cena estiva dello stesso Bertone con Berlusconi ed altri leader politici a casa di Bruno Vespa e un pranzo all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, sempre con Bertone e Berlusconi, alla vigilia del voto di fiducia dello scorso 14 dicembre alla Camera dei deputati – ma il barometro dei rapporti è stato sempre più burrascoso. Passando dalle parole infastidite sugli “stili di vita” dei personaggi pubblici pronunciate, in serie, dal presidente della Cei Angelo Bagnasco, dallo stesso Bertone e dal Papa in persona, quando scoppiò il caso Ruby. E arrivando, ora, al referendum sull’acqua.
E all’omelia tenuta ad Assisi a metà maggio da monsignor Crociata. Di nuovo lui. Il numero due della Cei non butta mai le parole lì per caso. E ha parlato, questa volta, dell’acqua, e dell’importanza di «politiche diverse, attente a salvaguardare l’accesso a questo bene comune non mercificabile, capaci quindi di sostenerne una gestione che ne garantisca a tutti la distribuzione». Non un’esplicita indicazione di voto, figurarsi, ma il messaggio era chiaro. E, certo, il cardinal Bagnasco non ha mai annunciato pubblicamente se sarebbe andato a votare o meno. Ufficialmente la Cei non si è mai schierata. Avvenire ha invitato a valutare i quesiti nel merito ed ha fatto appello a depoliticizzare l’evento. Ma, dopo Crociata, hanno parlato in tanti, anche ai massimi livelli. Alcuni – il vescovo di Locri Morosini, quello di Reggio Emilia Caprioli – hanno detto chiaro e tondo che bisognava andare alle urne a difendere l’acqua pubblica. Altri sono stati più cauti. Qualcuno – il vescovo di Trieste Crepaldi, falco dell’ala cattolica conservatrice o il vescovo ciellino di San Marino Negri – ha sostenuto l’astensione. Ma il rumore di fondo, nella Chiesa cattolica, è stato un coro di “sì”.
Hanno detto “sì” quarantasei diocesi italiane coordinate dalla rete Nuovi stili di vita, hanno detto “sì” Famiglia cristiana dei paolini e Aggiornamenti sociali dei gesuiti, hanno detto “sì” i missionari che, capitanati da padre Alex Zanotelli, hanno organizzato un sit-in di canti e preghiere in piazza San Pietro, ha detto “sì” la federazione dei settimanali cattolici, ha detto “sì” il cardinale ghanese Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e pace. Anche il Papa è stato arruolato tra i sostenitori del referendum dopo che, a pochi giorni dal voto, ha fatto un discorso sul nucleare e le energie pulite. Difficile pensare che il discorso di Ratzinger ad un gruppo di nuovi ambasciatori presso la Santa Sede fosse calibrato sulla consultazione popolare italiana, ma la tempistica e la scelta del tema ecologico hanno creato l’immagine di un Pontefice pro-quorum.
Ed ha consolidato l’idea che, dopo anni di intesa cordiale tra il berlusconismo e la Chiesa di Ruini, oggi sia un’altra epoca. Non solo perché, complice la crisi economica, la Conferenza episcopale italiana ha focalizzato sempre più la propria attenzione su questioni sociali, come la disoccupazione e la povertà, ha dato sempre più peso alla dottrina sociale della Chiesa, ed ha lasciato in secondo piano i “principi non negoziabili” che sono stati un cavallo di battaglia del ruinismo, dall’aborto alla ricerca sugli embrioni. Tanto più che nei Sacri palazzi vengono guardati con sempre maggior scetticismo gli ormai ciclici annunci – sempre smentiti dai fatti – circa un’imminente approvazione del disegno di legge sul testamento biologico, quasi che il Governo lo considerasse un lascia-passare per acquistare una patente di cattolicità troppo facile da sventolare. Non solo perché, nonostante tante rassicurazioni, il Governo Berlusconi, a causa del difficile frangente per le finanze pubbliche, non ha smesso di ridurre i fondi alle scuole paritarie, ed ha anche minacciato di introdurre un’imposta sugli immobili che rosicchierebbe alcune delle esenzioni di cui beneficia la Chiesa cattolica.
Non solo calcoli di costi e benefici. C’è un malessere più profondo che attraversa la galassia cattolica nei confronti del berlusconismo. Il premier, di sicuro, ha ancora estimatori tra i vescovi italiani. Ma le sue avventure erotiche, il modo in cui lo ha rivendicato, le energie spese per difendersi, hanno intaccato la credibilità di cui godeva in una maggioranza dell’episcopato. E i malumori sono esplosi a Milano, feudo del berlusconismo e roccaforte del cattolicesimo progressista. Lo spettacolo che è andato in scena nel capoluogo lombardo la dice lunga. Lo scontro tra il Giornale e il cardinale Dionigi Tettamanzi è stato solo la punta dell’iceberg. Il quotidiano di stretta fede berlusconiana ha accusato l’arcivescovo di Milano di fare il gioco di Pisapia. Immediata, risentita e ripetuta la replica del direttore di Avvenire, a riprova del fatto che dietro Tettamanzi c’erano i vertici dell’episcopato italiano.
Tra le righe delle critiche a Tettamanzi, però, c’era anche il risentimento della parte mainstream del Pdl nei confronti di Comunione e liberazione del governatore lombardo Roberto Formigoni. Poco convinti nel sostegno a Letizia Moratti, subito pronti ad archiviare un’epoca per guardare al dopo-Berlusconi. Tanto che nel tradizionale volantino post-elettorale Cl ha raccontato i nuovi bisogni incontrati dai propri militanti nel corso della campagna elettorale e si è domandata: «La politica – chi ha vinto, ma anche chi ha perso – sarà in grado di riconoscere questa novità di vita nel presente e di difenderla come un bene per tutti?». Perché la fronda cattolica nei confronti del premier, ormai, non è più questione di cattocomunismi.