Il ministro Giulio Tremonti ha rapporti altalenanti con le banche e con i risparmiatori. E del resto questo non è l’unico campo in cui si è prodotto in giravolte. Da un lato, si è costruito una buona fama di “mangia-banchieri” (I banchieri falliti? «O a casa o in galera») e si è vantato spesso che i suoi provvedimenti non puntavano a «salvare i banchieri ma il risparmio». Tremonti si racconta come uno che difende i sacrifici di chi mette da parte qualcosa per il futuro: il Robin Hood che toglie ai banchieri e agli speculatori per dare ai risparmiatori. Insomma, una rappresentazione di sé come di un intransigente tutore dell’articolo 47 della Costituzione della Repubblica.
La Gazzetta ufficiale e gli atti del governo, però, raccontano un’altra storia. Una storia difficile da digerire anche per chi non ha esitato a difendere la linea di rigore del ministro davanti ad attacchi irresponsabili. La storia di una serie di provvedimenti a favore se non dei banchieri – di cui anche personalmente diffida, ritenendoli i volenterosi collaboratori della sua defenestrazione nel luglio 2004, all’epoca dello scontro con Gianfranco Fini – di sicuro delle ragioni delle banche.
Il buon giorno si vede dal mattino e Tremonti non ha smentito il detto popolare. E infatti, pochi mesi dopo l’insediamento del terzo governo Berlusconi, con il decreto legge 185/2008, convertito in legge il 2 gennaio successivo, noto come “decreto anticrisi”, il ministro mangia-banchieri ha fatto alle banche un regalo fiscale da svariati miliardi di euro per consentire di smaltire la sbornia da acquisizioni degli anni precedenti. In sostanza, pagando un’imposta sostitutiva del 16%, le banche hanno ottenuto il riconoscimento fiscale degli avviamenti, da dedurre poi nei successivi nove anni. Il risultato è che lo Stato ha incassato subito qualcosa, ma le banche hanno guadagnato almeno il doppio in termini di minori imposti per gli anni a venire. Bastino due esempi: Intesa Sanpaolo ha potuto iscrivere “benefici fiscali futuri attesi dalla deduzione degli avviamenti dal reddito d’impresa” per 2.193 milioni, pagando un’imposta di 1.086 milioni, con un guadagno netto di 1,1 miliardi. La norma “salva-bilanci” a mezzo fiscale (articolo 15 del D.L. 185/2008) ha fruttato un analogo valore anche a Unicredit. E questo solo per citare i due maggiori gruppi bancari italiani.
L’abbraccio sempre più stretto del ministro dell’Economia con le banche ha prodotto poi un indulto di fatto sull’anatocismo, inserita nel decreto Milleproroghe di febbraio, che ha salvato le banche dalla restituzione degli importi illegittimamente addebitati ai clienti con la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi (a fronte di una capitalizzazione annuale degli interessi attivi). Una restituzione che era stata sancita da una sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione. A maggio Tremonti ha deciso poi di alzare il tasso-limite che fa scattare il reato d’usura (prima calcolato come tasso medio + 50% ora come tasso medio + 25% + 4 punti percentuali). A tutto vantaggio delle banche. E ancora la norma che consente la modifica unilaterale da parte delle banche delle condizioni contrattuali.
Mai però s’era visto un attacco al risparmio così diretto come quello che Tremonti ha messo a segno in questi giorni con la manovra appena varata dal governo. Un’imposta di bollo fortemente regressiva che verrà applicata al deposito titoli, ossia al conto dove vengono registrati i titoli (Btp, Bot, obbligazioni, azioni, con l’eccezione delle quote di fondi comuni) in cui una famiglia investe i suoi risparmi. Attualmente sui conti depositi si paga un bollo di 34,20 euro annuali. Dopo avere rinunciato a tassare gli utili di trading delle banche, Tremonti ha invece deciso che l’imposta salirà a 10 euro al mese, 120 euro l’anno. Indistintamente: che si tratti di una famiglia che ha investito quel poco che ha da parte in Btp o di clientela agiata con svariati milioni di investimenti. L’effetto dell’imposta è palesemente regressivo e anticostituzionale, non tenendo conto minimamente della capacità contributiva. Dal 2013, invece, la norma tremontiana introduce una parziale progressività: dal 2013, infatti, l’imposta sale a 150 euro annuali «relativamente ai depositi di titoli il cui complessivo valore nominale o di rimborso presso ciascuna banca sia inferiore a 50mila euro» , mentre per chi supera la soglia di 50mila euro sale a 380 euro. Si tratta però di una foglia di fico su un provvedimento che ha l’effetto di non tutelare e di scoraggiare il risparmio e l’investimento azionario, in palese contrasto con l’articolo 47 della Costituzione.
In conclusione, il risparmiatore viene espropriato del rendimento, se non anche di parte del capitale. L’economista Luigi Zingales ha calcolato che tra imposta di bollo a 120 euro e ritenuta (12,5%) un risparmiatore con 10mila euro in titoli che abbiano un rendimento nominale del 3% «paga 180 euro all’anno in imposte pari al 60% del proprio reddito nominale e 180% del proprio rendimento reale (assumendo un tasso di inflazione pari al 2%)». Cioè: uno presta soldi allo Stato e anziché guadagnarci ci perde. Non solo. Secondo lo stesso economista, «un risparmiatore con 30mila euro in titoli paga il 33% del proprio reddito nominale e 100% del proprio rendimento reale; un risparmiatore con 100mila euro in titoli paga il 24% del proprio reddito nominale in imposte e il 72% del proprio rendimento reale». Chi più ha meno paga.
In questo caso, inoltre, il regalo alle banche è più sottile. Poiché l’imposta di bollo non si applica ai fondi e soprattutto alle polizze assicurative né ai depositi, l’impiego del risparmio subisce una distorsione a favore sia degli strumenti collettivi del risparmio (in buona parte gestisti direttamente dalle banche) e delle assicurazioni sia della raccolta diretta degli istituti (depositi in c/c e libretti di risparmio), anche nella forma, un tempo in auge, dei pronti contro termine. Una mazzata per i piccoli risparmiatori, e l’ennesimo favore alle banche che di questi tempi hanno bisogno di incrementare la liquidità. Complimenti, signor “Robin Hood”.