La domanda che ricorre imbarazzata nei corridoi delle Cancellerie e nelle redazioni dei giornali è: perché Gheddafi sì e Assad no? La cornice di sicurezza in Siria si sta rapidamente deteriorando e la dimensione delle proteste e della relativa repressione sembra condurre ad un bivio: o il regime riuscirà a schiacciare con la violenza le manifestazioni di piazza o ad Assad non potrà toccare miglior sorte di quella del Colonnello libico. Evidenziare però le caratteristiche interne e regionali che rendono quella in Siria una crisi peculiare rispetto a tutte le altre rivolte arabe – e maggior ragione rispetto alla Libia – non è un esercizio banale.
La complessità etnico – religiosa, che nelle società arabe è il fondamento stesso del potere, è la prima e più evidente caratteristica: l’élite al potere alawita basa la sua legittimazione sull’occupazione quasi dinastica del potere e in virtù di un accordo con le diverse componenti religiose del mosaico siriano che, fino ad oggi, ha garantito una certa pace sociale a fronte di una distribuzione proporzionale delle risorse e delle ricchezze. Oggi, questa piccola minoranza che da tribale si è fatta politica si trova sotto assedio. Delle altre componenti religiose, certo; ma anche e soprattutto di quelle componenti sociali finora escluse da ogni progetto di crescita e sviluppo: i giovani vogliono il posto che nella vecchia piramide è stato della “borghesia del commercio” e dei travet statali.
Per ora il regime di Assad regge all’urto dell’onda di protesta sostanzialmente per due motivi: il primo è che i vertici delle forze di sicurezza e militari appartengono alla cerchia ristretta del “clan” al potere. Il fratello del Presidente in particolare guida le unità speciali che, secondo i rapporti delle principali ONG, starebbero arrestando quando non uccidendo centinaia di manifestanti nelle città di Homs, Hama e Daraa. Il resto delle gerarchie militari nonché dei militari semplici è invece di fede sunnita e da loro, in caso di defezioni significative, potrebbe arrivare la principale minaccia alla continuità del potere a Damasco. Proprio la capitale, esattamente per i motivi sopra esposti, è infatti rimasta immune dall’onda delle proteste di piazza: lì regna incontrastato il potere clanico alawita e il mosaico etnico è stato sacrificato sull’altare dell’autocrazia.
Il secondo motivo risiede nel ruolo geopolitico della Siria nello scenario regionale. Cerniera di congiunzione tra il Levante e lo spazio strategico persiano, su Assad sono state riposte negli ultimi anni le speranze di una pace possibile con Israele sul Golan, di una stabilizzazione del coacervo libanese, di uno sdoganamento indiretto del regime degli ayatollah di Teheran. Tutte speranze che oggi svaniscono sotto i colpi della protesta e della repressione. La caduta della pedina siriana avrebbe però indubbie conseguenze sulla stabilità di un’area vasta che va da Beirut fino a Teheran e, se possibile, a Kabul.
A tentare di svolgere un ruolo di mediazione attiva è il principale perno geopolitico dell’area: la Turchia. Il Primo Ministro Erdogan, dopo aver atteso con prudenza l’evolversi della crisi in Siria, ha giudicato inammissibili le violenze e le repressioni e per la prima volta non ha escluso l’ipotesi di una “Siria sunnita”. La distanza tra Ankara e Damasco si è fatta incolmabile. Ma il tema politico principale rimane l’indisponibilità dell’Occidente ad aprire un nuovo fronte di crisi che porterebbe irrimediabilmente anche nuova tensione con la Russia, storico alleato di Assad.
Eppure qualcosa di significativo in Siria accadrà. Nel senso della stabilizzazione, con un accordo di riconciliazione nazionale che sostanzialmente riveda le “quote” di spartizione del potere – ma che oggi sembra assai improbabile – o nel senso della destabilizzazione, con effetti anche sulla vita già fragile del nuovo governo libanese, rispetto al quale il ruolo di Damasco, per la presenza di 16 ministri di Hizbullah e di un premier tradizionalmente amico del raìs siriano, è molto forte. E’ evidente che il clan alawita non ha alcuna intenzione di abdicare. Ecco perché alcuni degli avvenimenti più recenti – tra cui le proteste palestinesi nel Golan o perfino l’attentato ad un convoglio italiano di UNIFIL tra Tiro e Sidone, nel quale sono rimasti feriti 6 nostri soldati – possono essere letti come il tentativo di scaricare all’esterno le tensioni interne al complesso ed enigmatico rompicapo siriano.