Articolo pubblicato il 26 marzo 2011
Nel confuso panorama di Parmalat ci sono poche certezze. Forse anzi ce n’è una sola, e si chiama Enrico Bondi. Più che le banche italiane e le loro evanescenti cordate nazionali, più che i proclami patriottici del governo, il vero ostacolo ai progetti della francese Lactalis su Parmalat è lui: l’ex chimico diventato dirigente d’azienda, 77 anni a ottobre, il “commissario” per antonomasia che le banche chiamano quando l’hanno fatta troppo grossa per poterla risolvere da sole. In questi casi Bondi è una sicurezza, ma anche un rospo da ingoiare.
In Italia, è l’unico, a parte il premier Silvio Berlusconi, che può chiedere una legge sapendo che presto la leggerà in Gazzetta ufficiale. Solo che le leggi del premier dialogano sempre con problemi suoi e delle sue aziende, mentre Bondi prescrive interventi per facilitare la missione del salvatore della Patria. Cioè, di se stesso.
A differenza del Cavaliere, Bondi è in eccellenti rapporti con la magistratura che conta. Ieri lo si è visto, e non è un caso, al Palazzo di Giustizia di Milano. Ascoltato come persona informata dei fatti sul rastrellamento di titoli Parmalat cominciato due mesi fa, quando i fondi esteri Mackenzie, Skagen e Zenit hanno annunciato l’intenzione di congedare Bondi in occasione dell’assemblea societaria del 12 aprile. A febbraio, però, è arrivato un esposto e il sostituto procuratore Eugenio Fusco, che a suo tempo indagò su Antonveneta, ha aperto un’inchiesta per aggiotaggio sulla scalata che ha portato il gruppo francese Lactalis a diventare primo azionista della Parmalat, con una quota del 29 per cento.
Fonti vicine al gruppo di Collecchio non commentano e ricordano «il segreto istruttorio». Nei corridoi del tribunale non è invece un segreto che a presentare l’esposto sia stato proprio Bondi. Che della faccenda, puntiglioso come è, ha interessato anche la Consob. Perciò da febbraio la commissione di vigilanza segue i mutamenti negli assetti proprietari e sta verificando la coerenza e la tempestività delle comunicazioni al mercato da parte di tutti gli attori in campo, e la relazione fra dichiarazioni e scambi in Borsa. Come sempre è in questi casi, c’è la possibilità che qualcuno abbia cercato di manipolare l’andamento del mercato, o abbia approfittato della sua posizione e dei suoi rapporti per abusare delle informazioni riservate traendone vantaggio a scapito degli altri.
La consuetudine di Bondi con gli inquirenti milanesi, del resto, ha una solida tradizione. Il 27 dicembre 2003, appena nominato commissario straordinario, convinse il fuggitivo Calisto Tanzi a incontrarlo Milano. Finita la riunione, a poche decine di metri dall’ufficio dove si erano visti, il fondatore della Parmalat venne arrestato dalla Guardia di finanza. Una sequenza di eventi che, alla Procura di Parma, interpretarono come segno di sfiducia da parte di Bondi, cui certo non dispiacque che le prime debolezze di un Tanzi appena arrestato fossero raccolte dai magistrati milanesi e non dai suoi concittadini parmigiani. L’influenza dell’Aretino era comunque tale che i pm di Parma nominarono come consulente tecnico la Pricewaterhouse, ossia la stessa società di revisione scelta dalla procedura di commissariamento guidata da Bondi.
Come il premier, invece, Bondi ha rapporti solidi e di lunga data con Gianni Letta, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A lui bussa quando serve qualcosa: “ad aziendam” ma in nome dell’interesse pubblico. A Collecchio il manager ha fatto un gran lavoro e, tra revocatorie e risarcimenti, ha recuperato 2.062,5 milioni di euro. Di questi, 1,3 miliardi sono stati pagati da banche italiane. Al momento, il tasso di recupero è di circa il 10% rispetto a un monte crediti di 19 miliardi ammesso al concordato.
L’amministratore delegato di Parmalat, comunque, non è solo uno che risolve problemi, come il mister Wolf di Pulp Fiction. Lui fissa anche le regole del gioco, e le rispetta. Ma è sempre lui a dare le carte ad azionisti, banche, consulenti, sindacati, allevatori e politici. Liberi gli altri di sedersi al tavolo o no. Qualche giorno fa i francesi hanno protestato contro la decisione del Governo di rendere possibile per legge un rinvio delle assemblee societarie con l’obiettivo di ritardare lo sbarco di Lactalis nel nuovo consiglio della Parmalat. «Pensiamo che non si possano cambiare le regole del gioco in corsa», lamentava Antonio Sala, presidente della Lactalis Italia. Verissimo. Il punto che sfugge a Sala e ai francesi – astuti nel condurre la scalata, a dispetto del protagonismo mediatico di alcuni banker di Société Générale – è che in questa partita la regola del gioco è Bondi in persona.
Così vanno le cose in da quando tutto questo iniziò, nel dicembre 2003. Giorno più giorno meno, l’Aretino, che la stampa dipinge come un austero monaco del dare e dell’avere, il cui unico divertimento è produrre olio in Toscana, fa stanza a Collecchio da allora. Al capezzale della gestione Tanzi, ormai agonizzante sotto il peso di una liquidità che non esisteva, arriva da consulente. Per decreto di Mediobanca. Giusto in tempo per accompagnare i Tanzi alla porta e assumere la presidenza del gruppo dissestato. Ma mentre tutti chiedevano di applicare la legge Prodi-bis, che disciplina l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Bondi ne fa scrivere una ad hoc.
L’antivigilia di Natale del 2003 il governo Berlusconi vara dunque il decreto Parmalat, più noto come legge Marzano: una riforma delle procedure di gestione delle crisi aziendali che risponde alle priorità espresse da Bondi nel caso che è stato chiamato a risolvere. «Nei mesi successivi, anche con il contributo dell’opposizione di sinistra, il Parlamento adeguò più volte la normativa speciale per Parmalat, fino a dar vita a una sorta di legge-fotografia: ciò che era astrattamente possibile secondo gli organi della procedura diventava prontamente legge dello Stato», ha rilevato su Lavoce.info Lorenzo Stanghellini, professore di diritto commerciale nell’Università di Firenze. Messo nelle condizioni in cui aveva chiesto di operare, Bondi centra l’obiettivo, la ristrutturazione va in porto. Parmalat torna in Borsa il 6 ottobre 2005, a 22 mesi dal crac, anche se l’amministrazione straordinaria continua a operare tuttora. «Il 5 novembre la mia missione sarà terminata», rispondeva a chi gli chiedeva lumi in vista della prima assemblea della società appena riportata a Piazza Affari.
A più di sette anni dal suo arrivo Bondi è ancora lì e la «sua» Parmalat è come il banco di Scrooge nel racconto natalizio di Charles Dickens. La cassa è piena, un miliardo e quattrocento milioni di euro, ma soldi non ce n’è per nessuno. Non per gli azionisti, un terzo circa dei quali sono risparmiatori che hanno ricevuto le azioni in cambio dei vecchi bond travolti dal crac di Tanzi. Nemmeno per le acquisizioni che Bondi ritiene buone solo a gonfiare il bilancio e a generare laute commissioni per le banche d’affari. La sua filosofia è che si compra solo se lui ritiene di fare un vero affare e non perché qualcuno, che siano azionisti banche analisti o consulenti, chiede di farlo. Secondo un esame realizzato per Linkiesta da un analista indipendente, ormai è troppo tardi per inseguire il modello di crescita alla Danone: in uno scenario globale di competizione per le risorse, Bondi non sbaglierebbe a concentrarsi nell’efficientamento dei processi produttivi.
Nell’ultimo triennio, quando cioè la pressione per la crescita è diventata martellante, il manager non si è sottratto al confronto. «Gli azionisti sono i padroni», è una delle sue frasi preferite. Ma lui non è uno che attacca l’asino dove vuole il padrone. Anzi. Quando è capoazienda, Bondi non prende ordini dagli azionisti, e anzi non esita ad attaccare loro il telefono in faccia. Se poi questo vuol dire perdere le occasioni di acquisto che ci sono state in questi anni di crisi, Bondi non fa una piega. Le acquisizioni rifiutate non sono, per lui, opportunità mancate ma cattivi affari risparmiati all’azienda.
Nelle riunioni ordinarie del Cda, che è capace di tirare avanti per ore e ore, Bondi è arrivato a presentare fino a venti ipotesi di acquisizione, illustrandole una per una e chiosandole minuziosamente, per poi concludere immancabilmente: «I multipli sono troppo alti… passiamo alla prossima ipotesi». I multipli (di prezzo) esprimono di quante volte la valutazione di un’azienda supera un parametro di riferimento, come il margine operativo o gli utili netti. E se sono troppo alti, non se ne fa niente.
I soldi così risparmiati non vengono distribuiti ai soci. È probabile che una delle poche cose che strappino una risata a Enrico Bondi sia il concetto di shareholder value, il valore creato per gli azionisti. La Bondi-theory si fa beffe delle moderne teorie della finanza propagandate da bankers, financial advisors, consultants. McKinsey raccomanda di restituire il denaro agli azionisti se non vi sono opportunità per investire nell’impresa? Una bestemmia nella visione dell’uomo, che agli azionisti si ritiene obbligato a dare solo il giusto. Nella prassi di Bondi fra soci e impresa si fa a metà.
Il risparmio resta disponibile (v. pagg. 124-125 del bilancio 2010) sul conto corrente (134,5 milioni) o impiegato in Btp (341,6 milioni), titoli di Stato francesi (132,4 milioni) e tedeschi (236,3 milioni) e libretti di deposito bancari (418,8 milioni), con un rendimento medio intorno all’1 per cento. Meno della metà dell’inflazione rilevata a febbraio nell’Eurozona (2,4%). Una scelta accettabile quando il costo della vita era congelato per via della crisi ma che adesso erode il capitale.
La regola di destinare solo il 50% degli utili ai soci, e di tenere il resto in azienda per l’autofinanziamento e come riserva, è tuttavia una pietra angolare nello stile di gestione dell’uomo. Al punto tale che l’ha fatta scrivere nello statuto di Parmalat. «Anche a fronte di eventuali proventi derivanti da azioni revocatorie e risarcitorie (…), la società sarà obbligata a distribuire agli azionisti una percentuale pari al 50% degli utili distribuibili risultanti da ognuno dei primi 15 bilanci annuali d’esercizio», recita l’articolo 26. Una formulazione inequivocabile ma che aveva un punto debole. A differenza di altri articoli statutari che non potevano essere modificati senza il voto favorevole del 95% del capitale fino a tutto il 2009, per cambiare la clausola sui dividendi non è stato previsto alcun quorum specifico: «si applicano le disposizioni di legge». In terza convocazione basta il 20% del capitale sociale.
Già nel 2009, dopo averlo confermato alla guida della società, i grandi fondi internazionali gli avevano chiesto di incrementare la distribuzione degli utili. Non se ne è fatto nulla, ovviamente. Bondi l’ha tirata in lungo, fin quando i fondi non hanno perso la pazienza e da ultimo hanno provato a licenziarlo, presentando una propria lista di candidati al cda di Collecchio.
Non avevano messo in conto la cocciutaggine dell’uomo. Che, per prima cosa, fa mettere una pezza al varco lasciato aperto dallo statuto. Non è elegante, ma se c’è da difendere la cassa, tutto è lecito: compresa naturalmente una visita a Gianni Letta. A metà febbraio, nel decreto Milleproroghe, spunta perciò una norma interpretativa della legge Marzano: è «inefficace» la modifica delle clausole concordatarie. La regola del 50% diventa immodificabile fino a decorrenza dei termini del concordato, nel 2020. Probabilmente, è la prima volta nella storia della finanza moderna che le preferenze di un manager in fatto di pay-out (rapporto fra utili distribuiti e totali utili) assurgono a norma di legge. D’altra parte, nessuno meglio di Bondi può interpretare il concordato, visto che la proposta avanzata ai creditori il 3 marzo 2005 porta in calce tre firme: sono tutte e tre di Bondi, una da commissario straordinario, una da presidente della Fondazione creditori Parmalat e una da presidente della nuova Parmalat. Un commissario uno e trino.
Il risultato è che oggi i fondi Mackenzie, Skagen e Zenit non sono più azionisti. Temendo di rimanere stritolati fra la cordata italiana annunciata dal banchiere Corrado Passera di Intesa Sanpaolo, hanno venduto il loro 15,3% a Lactalis per 750 milioni, e ci hanno fatto il loro bel guadagno. Bondi, invece, è ancora l’amministratore delegato. Non solo. È anche il primo candidato nella lista presentata da Intesa Sanpaolo, una banca con cui aveva avuto più di uno screzio in passato, sia per il contenzioso sia per l’improbabile acquisizione del concorrente Granarolo caldeggiata dall’istituto. Ma Letta e il ministro Giulio Tremonti, che in lui vede un amministratore vecchio stile, allergico alla finanza creativa, lo hanno imposto dall’alto. Per una banca “di sistema” non insensibile alla politica come è Intesa Sanpaolo è stato impossibile dire di no, anche se questo ha fatto saltare l’alleanza con i fondi esteri e aperto la strada ai francesi.
Quanto a Lactalis, che con il 29% di Parmalat potrebbe conquistare la maggioranza del nuovo cda, il Governo ha provveduto a varare un’altra proroga “ad aziendam” gradita a Bondi. E utile alla cordata italiana, se mai si farà. Per legge, le assemblee societarie già convocate sono diventate rinviabili fino al 30 giugno. Si potrà guadagnare un po’ di tempo. Certo, per un austero dirigente come Bondi, non è bella cosa rinviare un appuntamento già fissato. Con tutto quello che costano le convocazioni, si rischierebbe di fare un danno ingiustificato alla società. Soprattutto, quali ragioni addurre per prorogare l’approvazione del bilancio e l’elezione dei nuovi amministratori? Problema imbarazzante, che la politica romana non può risolvere. Chissà che qualche risposta non si possa trovare invece fra le pieghe dei fascicoli della Procura di Milano e della Consob.