Ai turisti la sopraelevata non piace. Ruba alle loro foto ogni ambizione da cartolina. Anche le archistar ne parlano male. Soprattutto, ovviamente, Renzo Piano, che ha ridisegnato il Porto Vecchio per le Colombiadi del 1992. E che da sempre ne sogna l’abbattimento (un tunnel, o un mega ponte al largo, i sostituti genericamente proposti) e l’ha definita «una barriera visiva che umilia la splendida palazzata a mare». I genovesi le riservano un affetto pratico (regola da quasi cinquant’anni un traffico altrimenti impossibile) e ormai anche paesaggistico; conservativo. La strada di acciaio e cemento merita comunque rispetto, al di là delle contrapposte concezioni urbanistiche. È un simbolo assai significativo di Genova, sotto diversi aspetti. Col suo tagliare l’orizzonte, ribadisce quanto questa sia forse, fra le città di mare, quella più di terraferma (e molto ancorata, e affezionata, in tutte le sue amministrazioni, al calcestruzzo). Col suo essere – inaugurata nel 1965 – una delle ultime grandi opere infrastrutturali costruite, ribadisce quanto sia bloccata la città. Passata, senza troppo reagire, dalla modernità all’archeologia industriale.
Allora, per glorificare quei chilometri di strada volante tirati su – con grandi demolizioni e sbancamenti, in appena un anno e mezzo – furono chiamati un regista (Valentino Orsini) e un poeta (Franco Fortini) che diressero e scrissero i testi di un film di venti minuti sul «nuovo ponte di comando della città», «gigantesco e familiare come un transatlantico davanti alla finestra di casa». E con tutta l’enfasi della modernità Fortini scriveva, tra l’altro: «Perché essere modesti? Di questi chilometri che frustano una costa e legano due riviere, che filano come il tracciato di una rondine ad ali tese fra il mare e le pietrificazioni della storia, di questi chilometri di intelligenza, Genova può essere superba». Scriveva anche: «La sopraelevata è ordine senza monotonia; non è una soluzione, è la proposta». Oggi sembrano mancare sia le soluzioni che le proposte. Ma prima di sbarcare nella Genova del 2011, riguardiamo quel film di un’epoca fa.
Giusto una settimana fa, Genova ha voluto darsi una scossa. Con orgoglio l’imprenditoria ligure ha chiamato l’evento «la marcia dei 500», rievocando l’epopea della «marcia dei quarantamila» di Torino del 1980. Una specie di insurrezione dei colletti bianchi, insomma. Ma se allora c’era la rivincita nella lotta di classe, stavolta il nemico proprio non era ben chiaro. Camminando per quasi trecento metri, da piazza De Ferrari alla prefettura, la Liguria che conta ha chiesto a gran voce il Terzo Valico; la linea ad alta velocità verso il Nord, in grado di scavalcare agilmente l’Appennino e di collegare la città e il suo porto a Milano, al corridoio 5 (quello della Val di Susa), alla Valle Padana e su su fino al cuore produttivo d’Europa. Il problema è che a protestare c’erano tutti, in corteo. Imprenditori, leader di Confindustria e degli artigiani, banchieri, Legacoop, spedizionieri, terminalisti. Ma c’era anche il sindaco della città, da sempre amministrata dal centrosinistra, Marta Vincenzi. E il presidente della regione (ancora centrosinistra) Claudio Burlando. E, tra le file del governo, il sottosegretario (alla Semplificazione) Francesco Belsito, il leghista genovese che fa parte di quella mitologia politico-giornalistica che è il “cerchio magico” di Umberto Bossi. Insomma, destra e sinistra, governo di Roma e amministrazioni locali, protestavano assieme agli imprenditori. Contro chi, era difficilmente comprensibile, essendo lì presente al gran completo tutta la classe dirigente che dovrebbe, di norma, provvedere e decidere.
In marcia c’era anche Marco Bisagno, 63 anni, presidente dei cantieri T. Mariotti. Prima di cedere il testimone, nel 2008, a Giovanni Calvini (figlio di Adriano, il Cavaliere del lavoro leader nel settore della frutta secca) era a capo di Confindustria Genova (è stato anche vice per 7 anni, per 4 a Roma in giunta, e ora è nell’esecutivo ligure). «La marcia è stata un successo», dice, «se si considera che è stata decisa con pochissimo anticipo in una giunta di Confindustria e che era organizzata di lunedì mattina in una città in cui siamo molto mugugnoni, ma raramente vogliamo metterci la faccia. Non avevo mai visto così tanti imprenditori e così uniti. Sa, qui siamo piuttosto litigiosi… Ora, presa coscienza, il problema sarà avere delle risposte. Non voglio essere cattivo, ma Genova è una città male amministrata. Manca la lungimiranza. La miscela esplosiva di crisi, qui avvertita con un paio di anni di ritardo, e di penuria di servizi e collegamenti infrastrutturali, rischia di farci morire. Succede un po’ in tutta Italia, ma Genova, in questo, è campione. Chi amministra si trincera sempre dietro alla mancanza di soldi. È vero che ce ne sono pochi, ma non credo che sia questa la causa principale del nostro immobilismo. C’è una pigrizia della classe dirigente. A tutti i livelli, sia chiaro. Non fanno scelte sbagliate. Proprio, non scelgono. Per paura di non accontentare tutti, non si muovono. Si sono dimenticati che cosa significa la parola “democrazia”. Vorrebbe dire seguire il parere della maggioranza. Invece qui si ascoltano tutte le minoranze urlanti».
Il cantiere T. Mariotti è in via dei Pescatori, al porto. Con le officine di riparazione San Giorgio del Porto (con cui ha costituito una holding nel 2008) dà lavoro a circa 400 dipendenti. Attorno a Bisagno, che parla, ci sono i modellini delle grandi navi da crociera e dei super-yacht prodotti, al ritmo, rispettivamente, di una all’anno e di uno ogni due anni. L’azienda è tra le prime due o tre al mondo nel settore.
«Ma a Genova si fa fatica», continua Bisagno. La città è sotto infrastrutturata. Per non parlare del porto. Manca una vasca di carenaggio adeguata. Continuiamo a discutere da anni della sesta vasca, senza però far niente. E stiamo perdendo un treno importante. Abbiamo sette o otto giorni di vantaggio, rispetto ai porti del Mare del Nord, sul baricentro della produzione europea. Eppure non lo sfruttiamo, perché non costruiamo questo benedetto corridoio verticale. E loro si stanno prendendo tutto. Quanto al nostro settore, quello della costruzione navale, è sottovalutato. Possibile che con tutti i ministeri che fanno, un Paese circondato su tre lati dal mare come l’Italia non abbia un ministro della Marina mercantile? A Roma non sappiamo con chi andare a parlare. All’estero, in Germania e in Francia, per esempio, lo Stato aiuta i privati. Qui da noi, non solo non ci aiuta, ma ci fa concorrenza con Fincantieri. L’azienda pubblica fa quello che vuole. Mette il sociale davanti e abbassa le offerte a dei livelli ai quali noi andiamo in perdita».
«Nel nostro settore dobbiamo confrontarci col mondo. E posso dire che sia a Marsiglia che in Friuli, a San Giorgio di Nogaro, dove abbiamo altri due stabilimenti, le cose vanno molto meglio che a Genova. Certo, in Francia ci sono scioperi più duri rispetto all’Italia. Qui sono pochi e molto leggeri. Ma c’è più capacità di dire un sì o un no in tempi rapidi. Qua i politici non ti dicono mai niente. Il mio slogan è “diteci no, ma ditecelo subito”. Invece, mancano sempre le risposte».
«In questa situazione», ammette, «non ci sono buone nuove neppure dal lato degli imprenditori. Non vengono fuori nomi nuovi. Storie nuove. Al limite c’è qualche figlio di, se butta bene». E conclude azzeccando l’immagine: «Genova è come l’appartamento della nonna. Magari negli anni Cinquanta o Sessanta era pure moderno o confortevole. Ma la nonna non ha più voluto fare lavori e ora andrebbe rifatto dai pavimenti».
La settimana genovese ha vissuto altre scosse. Il sindaco Marta Vincenzi è stata richiamata a Roma dai vertici del Pd. Lei si aspettava una riconferma (si vota nel 2012), invece dovrà giocarsela alle primarie. Il partito ha mostrato i risultati di un sondaggio Ipsos, con dati che ha giudicato preoccupanti sul suo conto. Se il 57% esprime l’intenzione di votare centrosinistra, solo il 50,3% appoggerebbe SuperMarta (la chiamavano così, fino a poco tempo fa). Il sindaco avrebbe perso il feeling con la città. I genovesi la boccerebbero soprattutto su mobilità e politiche del lavoro. Lei non l’ha presa per nulla bene e secondo quanto riportato dal giornale cittadino, Il Secolo XIX avrebbe sbattuto le carte sul tavolo dicendo, sdegnata: «Tenetevi pure il vostro sondaggio. Non mi interessa. Non lo voglio neanche vedere. Io ho altri numeri. Ben diversi».
Nessuno in città ritiene, in effetti, che si tratti di una questione demoscopica, ma dell’ultimo capitolo di una lotta intestina che spacca il Pd ormai da tempo. Da una parte c’è la Vincenzi, dall’altro il presidente della regione Claudio Burlando e la donna che potrebbe essere il futuro candidato, la senatrice Roberta Pinotti.
Del resto, il centrosinistra genovese, da sempre egemone in città, aveva già fatto fuori un suo sindaco dopo il primo mandato. Fu nel 1997, quando all’indipendente Adriano Sansa (magistrato, ora presidente del Tribunale dei Minori di Genova) il partito rinfacciò «una insufficiente capacità di interlocuzione», aprendo la strada al decennio di Giuseppe Pericu.
Tempo ne è passato, ma Sansa ricorda ancora e bene. «Io non amo parlare con ostilità della sinistra», dice. «Ma dopo tanti anni di governo della città senza alternanza c’è il rischio reale di una sclerotizzazione della classe dirigente, e di clientele. Quando mi dicevano che in una determinata carica dovevamo mettere “uno dei nostri”, io rispondevo “Ma i nostri non sono i genovesi?”. Ho pagato questo. Non sono voluto andare oltre quello che la legalità prevede e per questo sono stato espulso come una cisti. Perché non avevo la disciplina del sistema, del sottosistema e del clan. La stabilità è una qualità. La staticità un grande male. In città c’è ormai una oligarchia, una ragnatela di interessi che rende tutto opaco e favorisce anche personaggi poco raccomandabili. Nel trasporto e nelle costruzioni, a Genova e dintorni, sono ormai molto preoccupanti le infiltrazioni della malavita organizzata. Non intendo dire che chi governa partecipa a questo, ma solo che il clima senza trasparenza che ha messo in piedi finisce per favorire tali fenomeni. Per dare un futuro alla città, non ci si può basare solo sull’edilizia, sul cemento, e sulla speculazione che sempre segue. Qui tutti ruotano attorno allo stesso sole. C’è bisogno di un risveglio».
Nella città del comico, un gruppo di sostenitori di Beppe Grillo ha in mente un nome per il risveglio, e ha creato un apposito gruppo su facebook. Sponsorizzano il figlio Sansa, il giornalista del Fatto Ferruccio. Ma a Genova ci si divide su tutto e non tutti sembrano d’accordo tra i grillini. Intanto il Movimento Cinque Stelle ha preparato un video in cui, scimmiottando una vecchia pubblicità progresso sull’Aids, chiarisce chi sarà il candidato. Eccolo qua:
In tutto questo, però, il centrodestra non pare in grado di organizzarsi e di proporsi come alternativa di governo. Lo sconfitto al primo turno contro la Vincenzi nel 2007 (51,2 a 45,9%; gli spiccioli se li divisero altri otto candidati), il senatore Enrico Musso, è transitato nel Pli. L’opposizione, scarsa di uomini e di idee, non sembra essersi giovata nemmeno di un paio di scandali che hanno colpito il centrosinistra. Prima il portavoce del sindaco Vincenzi, Stefano Francesca, finito nelle maglie della Mensopoli ligure, poi il consigliere Enac Franco Pronzato (e uomo Pd), arrestato per presunte irregolarità legate a un appalto sull’assegnazione dei collegamenti aerei tra Roma Urbe e l’isola d’Elba. Quanto alla Lega Nord, paga un certo appiattimento sulle ragioni dei cacciatori. Ha appena un consigliere in Comune e tre in Regione. Dove il capogruppo è il trentasettenne Edoardo Rixi (da pronunciare Rigi, perché sulla x il genovese assomiglia al portoghese).
La sua analisi è chiara: «Questa è una città a cui hanno tagliato le palle. I veti incrociati nel centrosinistra paralizzano tutto. Siamo andati avanti per anni con la rendita di posizione, ma ora non basta più. Dei giovani che si laureano, solo il 20% rimane in città. Il resto scappa a Milano o all’estero. Negli ultimi anni si sono limitati a creare società cosiddette private che si sono prese tutto quello che era del Comune. Ne hanno fatte oltre venti, tra cui l’A.S.Ter che negli appalti pubblici sotterra gli edili. E poi, col nuovo piano urbanistico, hanno trasformato zone industriali in zone per edilizia residenziale e commerciale. E dopo si lamentano se abbiamo 30 mila pendolari che vanno a lavoro a Milano! La sinistra gestisce l’esistente facendo diventare Genova una città di vecchi. La vede come un grande ospizio. Le poche industrie che sono rimaste, scappano. Burlando se ne è venuto fuori a dire che la Tav in Val di Susa è inutile e che dovrebbero farla qui. Una mossa furba. Per strizzare l’occhio ai movimentisti No Tav e intanto promettere che qualcosa si muoverà nel deserto delle nostre infrastrutture. Qui la sinistra non è come in Emilia e in Toscana, dove esprime un modello e le cose funzionano. Qui spennano il pollo piano piano. Neanche se ne accorge ed è già nel forno. In Regione è andato al potere una sola volta il centrodestra, con Sandro Biasotti, dal 2000 al 2005, e il centrosinistra ha preso da quell’esperienza solo la cosa peggiore: il modello – insostenibile – di gestione della Sanità. Ora ci battiamo contro l’arrivo della rumenta (la traduzione dell’altrettanto dialettale munnezza, ndr) da Napoli e per difendere l’occupazione in Fincantieri, in crisi profonda. Ma siamo in una città sclerotizzata. Senza speranze, senza sogni. Genova dovrebbe tornare ad aprirsi al mondo. Invece, del mondo, prende solo i disperati, gli immigrati, per lo più irregolari».
Due immagini della Festa del Carroccio di Arenzano (Genova)
Eppure questa Genova che tutti descrivono come «sclerotizzata» è anche tanto contemporanea. Non per nulla è la città dove è cresciuta professionalmente (ballerina sui cubi) Ruby Rubacuori. C’è anche qualche cambio di casacca politica, da destra verso sinistra. L’ultimo a fare il passaggio è stato l’ex vicepresidente del consiglio comunale Alberto Gagliardi, 65 anni, cresciuto politicamente con don Gianni Baget Bozzo, approdato con lui a Forza Italia e, dopo una lunga militanza di centrodestra, passato da pochi mesi nell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro (che in Liguria esprime anche il vicepresidente di Regione, Marylin Fusco). «Trent’anni fa», dice Gagliardi, «Genova contava. Era la capitale nazionale delle partecipazioni statali. Aveva Costa a capo degli armatori italiani. E il vescovo Siri era il capofila del cattolicesimo conservatore. Ma era anche una città che portava il seme dell’attuale decadenza. C’era la spocchia del “Tanto di qui devono passare”. Per cui si riteneva che si poteva anche non fare niente, tanto il nostro porto era una via obbligata. E invece, ci hanno scavalcati persino nel Nord Europa. Si diceva “No alla città dei camerieri!”, rifiutando lo sviluppo turistico, e ancora paghiamo quel ritardo».
Sono sue alcune delle definizioni che hanno fatto storia nella pubblicistica genovese. Le ripete tutte e volentieri: «Qua non abbiamo imprenditori, abbiamo prenditori». Con la variante: «Qua non abbiamo manager, abbiamo magnager».
«La signora sindaco ha fatto bene», dice. «La città è più pulita. Non ha tagliato sul sociale. Ha ridotto il debito. E ha dato uno stop alla cementificazione. Questo le è costato caro. Ora i poterini fortini locali le sono ostili. E pure con Gerundio (soprannome dato a Burlando, ndr) le cose non vanno bene. Così il centrosinistra litiga a più non posso. Dall’altra parte, la Lega fa la lotta contro la moschea, come se quello fosse il problema. Il centrodestra non ha un progetto, il Pdl è maciullato dalle grane di Scajola. Il passaggio dall’industria pesante all’industria pensante non è riuscito. Il Terzo valico speriamo che vengano a costruirlo i cinesi tra una ventina d’anni perché se aspettiamo i nostri, buonanotte. Insomma, si sopravvive. Ma non c’è entusiasmo. Da nessuna parte. Sono un tifoso blucerchiato e mi dispiace dirlo, ma questa città rischia di fare la fine della Sampdoria. Se continua così, la serie B è vicina».
Di Genova si dice, tra le altre cose, che il linguaggio dei muri è ancora particolarmente vivo. In effetti si trova di tutto e spesso è un buon ripasso di storia d’Italia e cittadina. Molta vernice prepara, per la settimana prossima, l’anniversario dei dieci anni dal G8 e dai fatti della scuola Diaz e del carcere di Bolzaneto; l’aggressione notturna della polizia che il vice questore aggiunto Fournier definì, evocativamente, «una macelleria messicana». Ma nella città da tutti definita «sclerotica» e «immobile», invischiata (come tutta l’Italia) in una crisi da cui non si capisce come uscire, forse è una frase tracciata dagli anarchici sul muro di un caruggio la più veritiera: «Un cielo così cupo non può schiarire senza una tempesta».