Genova a quest’ora, dieci anni fa, è una città attraversata da un corteo allegro. Carnevalesco. La giornata dei migranti. È un giovedì. Tutt’attorno si avverte un clima strano. Come quando sai che la storia si sta dando appuntamento dalle tue parti, si parla meno e ci si guarda un po’ più negli occhi. Gli otto grandi vengono sistemati sul mare. Di quel che si dissero e decisero in quel summit tanto sfarzoso quanto inutile nessuno ricorda nulla.
Giovedì, quindi. 19 luglio. Lentamente e in silenzio a Genova avviene un ricambio. I genovesi lasciano la città. Altri la raggiungono. In una scuola divenuta poi tristemente famosa ragazzi e giornalisti chiacchierano e scrivono. In uno stadio in periferia, il Carlini, giovani inconsapevoli montano le loro tende e sprovveduti responsabili del movimento no global giocano alla guerriglia facendo le prove di assalto con tanto di armature costruite alla buona. Francesco Caruso, che una ne fa e dieci ne dichiara, attira i giornalisti con le sue promesse d’assalto alla zona rossa. Scudi umani, dice. Roba buona per i titoli. Meno per chi indosserà quei panni.
Genova si addormenta pensando a un gioco e si risveglia militarizzata. Come a Risiko. Il venerdì mattina, allo stadio Carlini, passano in tanti a fare un saluto: da don Gallo a don Vitaliano della Sala, da Dario Fo e Franca Rame, fino ovviamente a Casarini, Agnoletto e Caruso appunto. C’è il sole, fa caldo. In testa al gruppo ci sono i no global con scudi costruiti artigianalmente col plexiglass. Sembra la sfilata carnevalesca del giorno prima. Una sfilata fuori tempo massimo, però.
Il corteo lentamente si avvia verso il centro, e in lontananza si scorgono nubi di fumo. Gli elicotteri volteggiano senza sosta, come gli avvoltoi nel deserto. Un’emittente televisiva locale, Primocanale, è la prima a capire l’importanza di quei giorni e segue gli eventi in diretta con una giovane giornalista: Ilaria Cavo. Il tam tam racconta di gruppi di persone, tutti vestiti di nero, agilissimi e violentissimi, che si muovono in branco, arrivano, distruggono e vanno via indisturbati. Assaltano persino il carcere di Marassi.
Sono le due del pomeriggio. O giù di lì. Il corteo arriva a un imbuto. Via Tolemaide. La salitina conduce alla stazione di Genova Brignole, piazza Verdi. Una salitina che il corteo non percorrerà mai. A destra un ponticello, a sinistra corso Torino. Palazzine basse, vita tranquilla di una Genova borghese. Il corteo si ferma poco prima del ponticello. Di fronte a sé le forze dell’ordine schierate. Non si è mai capito se ci fosse un accordo per un dimostrativo ingresso nella zona rossa o no. Fatto sta che improvvisamente, col sole alto, Genova si trasforma in un inferno.
La tensione è alta. Parte la prima carica. I no global indietreggiano e poi reagiscono.Bloccano un mezzo della polizia, se ne impossessano, e issano la bandiera rossa del Che. Da piazza Verdi spuntano colonne di mezzi come se l’Italia fosse entrata in guerra. Dalle due fino al tramonto il corteo dei no global fa avanti e indietro nel budello di via Tolemaide. Con Caruso che si dimena e con gli altri a rendersi conto che non è un gioco. Ma non ci sono solo ingenui. Tutt’intorno è guerriglia, in ogni vicolo, in ogni strada, in ogni piazza, su ogni marciapiede. Cariche, assalti, controcariche, lacrimogeni urticanti, manganellate, fughe disperate, sprangate, sanpietrini, bottigliette d’acqua lanciate dalle finestre dai genovesi rimasti in casa, blindati ad alta velocità. Si corre, si corre sempre. Col rumore degli elicotteri in sottofondo. Modello Apocalypse now. Ma senza il colonnello Kurtz.
Fino a uno sparo, netto, sordo. Piazza Alimonda, dietro scale e scalette. Vicino a via Tolemaide. Un giovane a terra, le mani come se fosse in croce. Stava per lanciare un estintore su un defender dei carabinieri che non riusciva più ad andare né avanti né indietro. Un carabiniere di leva in servizio a Genova, Mario Placanica, spara e uccide Carlo Giuliani. Venerdì 20 giugno. Il G8 è finito ancor prima di cominciare.
È morto un ragazzo greco, non se ne conoscono le generalità. Poi la notizia. Il ragazzo non è greco, è italiano. E mentre in una Genova surreale, da scenografia di Day after, ciascuno cerca di riguadagnare la casella di partenza. Nella sala stampa allestita al Porto, Enrico Mentana mostra, per primo, la prova dello sparo del carabiniere. La verità è in uno scatto di un fotografo della Reuters, Dylan Martinez. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, compare in tv per un messaggio alla nazione con al fianco il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La polemica politica è appena cominciata. Sulla gestione dell’ordine pubblico, sulla presenza di Gianfranco Fini nella sala operativa delle forze dell’ordine, sulle scriteriate dichiarazioni della vigilia da parte di Francesco Caruso. Di quegli uomini in nero si dice poco o nulla. A chi li ha visti nessuno crede. Si va a riposare. Con gli elicotteri sempre in volo.
È sabato. Il sole è sempre alto. Le cronache raccontano di un corteo pacifico gestito dai sindacati. Momenti di tensione, certo. Scontri, soprattutto verso Marassi. Altri assalti degli uomini in nero sul lungomare. Quel che accade in mattinata nel grosso della sfilata non sfonda il muro dei media. È la giornata della rabbia e del lutto. E tanto basta.
È sera. Il G8 è terminato. In sala stampa c’è chi beve l’ultima birra, chi mette a posto il pc, chi scrive gli ultimi articoli, chi scarica le foto di giornata. Fino a un cellulare che squilla: li stanno massacrando, alla scuola Diaz. Il viaggio dal Porto alla Diaz è lungo. In taxi a radio gracchia solo richieste per la scuola. E mentre il Corriere della Sera manda in stampa un articolo di fondo di Francesco Merlo che oggi sarebbe interessante far rileggere ai lettori di Repubblica, ambulanze a sirene spiegate arrivano alla scuola Diaz. Nessuno può entrare. Agenti in assetto antisommossa ne impediscono l’accesso. Una scena già vista, ma solo al cinema o in tv, nel film La notte delle matite spezzate sugli universitari nell’Argentina dei militari.Altri sono entrati per la perquisizione più nera della repubblica italiana. Escono giovani stravolti dal sangue e dalle botte.
Finalmente si entra. E c’è sangue ovunque. Panni per terra, sguardi allucinanti, chiazze di sangue vivo sul pavimento. Stranieri con le mani in testa. Non riescono a parlare. Si sale ai piani superiori. Lungo le scale, strisciate di sangue alle pareti. Porte divelte. Il suono delle ambulanze non si avverte più.
Tanto è stato scritto su Genova. Tanto è stato visto. Dopo. Quella sera e l’indomani, e gli altri giorni a venire, la “perquisizione” alla Diaz sembrò rientrare in una ordinaria operazione di polizia ordinata dal capo Gianni De Gennaro. Ci vollero giorni affinché emergessero brandelli di verità. Per far capire che no, quella serata proprio non c’entravano nulla le scriteriate affermazioni di Francesco Caruso. La morte di Indro Montanelli sembrò portar via ogni polemica. Pochi lo ricordano, ma il velo su Genova – incredibile a dirsi – lo sollevò il Tg1 di Albino Longhi, con un lungo e muto filmato mandato in onda durante la settimana, nell’edizione delle venti. Riprese che testimoniavano in maniera agghiacciante quel che accadde il sabato mattina sul Lungomare. Anziani, donne e bambini manganellati da agenti di polizia, signori di mezza età (lontani anni luce dai no global) che chiedevano aiuto e si ritrovavano col volto pieno di sangue. Da allora, seppure lentamente e faticosamente, qualcosa sulla gestione dell’ordine pubblico è emersa. Così come quel che accadde a Bolzaneto. Anche se mai se ne comprese il motivo. Mai più ovviamente, tante gente di mezza età, scese in strada a protestare. Il movimento, o quel che ne rimase, restò in mano a Francesco Caruso. Genova compì persino il miracolo di far dire qualcosa di sinistra a Massimo D’Alema, in Parlamento.
La Corte d’Appello di Genova ha condannato De Gennaro a un anno e quattro mesi per istigazione alla falsa testimonianza dell’ex questore di Genova Francesco Colucci. Per la scuola Diaz venticinque uomini della polizia sono stati condannati per complessivi 85 anni per falso ideologico e lesioni gravi.
Oggi, dieci anni dopo, di quei giorni resta un lontano ricordo. E, a volersi concentrare, quel suono incessante di pale d’elicottero riaffiora nella mente.