Quella a cui stiamo assistendo da venerdì scorso sui mercati finanziari è una crisi di fiducia nella governance politica dell’Italia ma anche dell’Europa. I fondamentali economici italiani sono critici, ma non tali da far pensare a un fallimento del paese.
L’Italia è riuscita a ridurre il rapporto debito/Pil di dieci punti percentuali (dal 114 al 104 per cento) tra il 1999 e il 2004. Prima della crisi internazionale, nel 2007, avevamo un avanzo primario (al netto degli interessi) pari a oltre il 3 per cento del Pil e un deficit complessivo pari a solo l’1,5 per cento del Pil. I mercati finanziari non sono scettici verso le capacità della nostra economia di ritornare su un sentiero di sostenibilità della finanza pubblica. Piuttosto, sono preoccupati dalla confusione che regna intorno alla manovra economica e dall’indebolimento del ministro dell’Economia. Non a caso, la tempesta è cominciata quando hanno cominciato a circolare ipotesi sulle sue dimissioni. Benché il ministro non sia esente da critiche, bisogna riconoscere che, con questo governo, rappresenta l’unica garanzia per i mercati finanziari internazionali.
Quello che i mercati chiedono è che vi sia un quadro politico stabile, in grado di sostenere una strategia di lungo periodo che riporti il paese su un sentiero di crescita più elevato e mantenga sotto controllo i saldi di finanza pubblica, senza la pretesa di correzioni drastiche e immediate. Quello che spaventa i mercati, però, non è solo la pochezza dei politici nostrani. È anche la debolezza della governance europea. Come abbiamo già sottolineato, le istituzioni europee non sono state in grado, in un anno e mezzo, di gestire efficacemente un problema, quello della Grecia, il cui debito rappresenta solo il 3,6 per cento del Pil della zona euro.
Cosa succederebbe se l’Italia, il cui debito pubblico è pari a cinque volte quello greco, si trovasse in difficoltà nell’accedere ai mercati finanziari e dovesse rivolgersi ai partner europei per chiedere aiuto? È un’ipotesi che giustamente terrorizza gli operatori finanziari, ed è inutile fare calcoli sulla dimensione dell’attuale Efsf e del futuro Esm: la politica europea non sarebbe in grado di gestire il problema. Il cancelliere tedesco ha già dato un primo segnale, avvertendo il nostro governo di non fare scherzi con la manovra di finanza pubblica; come dire: dovete contare su voi stessi.
Il vertice dell’Eurogruppo di lunedì non ha raggiunto alcuna conclusione. Unico passo avanti è la disponibilità a una maggiore flessibilità nel modo di operare del fondo europeo di stabilità finanziaria Efsf, che si potrebbe tradurre nella facoltà di acquistare titoli del debito pubblico europeo sul mercato secondario. È un passaggio auspicato da più parti, noi compresi. Restano sul tappeto la definizione dei dettagli relativi al secondo pacchetto di aiuti alla Grecia e le diverse ipotesi di coinvolgimento del settore privato. Quest’ultimo pesa come un macigno sulla trattativa relativa al piano di assistenza finanziaria. Cerchiamo di capire perché, esaminando le diverse alternative.
Il piano tedesco
Il governo tedesco ha insistito, per venire incontro al suo elettorato, affinché le banche partecipassero ai costi del salvataggio. Il piano tedesco prevedeva che le banche fossero costrette a sostituire i titoli greci detenuti in portafoglio con titoli di scadenza più lunga, rinviando di fatto la restituzione del capitale, e con tassi d’interesse inferiori a quelli di mercato. Anche lo statuto del futuro fondo di salvataggio Esm prevede il coinvolgimento dei privati quale requisito per accedere agli aiuti europei. Questo è un grave errore. Se si accetta l’idea del salvataggio, imporre perdite ai creditori privati non fa altro che aumentare il costo del salvataggio stesso. Infatti, anticipando di subire perdite, i creditori non sono disposti ad acquistare nuovi titoli del debito pubblico.
Di conseguenza, il paese debitore non è in grado di tornare a emettere titoli sul mercato, e così si rende necessario un nuovo piano di aiuti, gonfiando i costi che i paesi partner devono sostenere. Quindi, o si rinuncia al salvataggio di un paese, oppure lo si fa fino in fondo: le vie di mezzo non funzionano. Questo è esattamente ciò che sta accadendo per la Grecia, dove un secondo piano di intervento si è reso necessario per l’impossibilità dello Stato greco di accedere ai mercati finanziari a costi ragionevoli. Lo stesso sta accadendo per il Portogallo: il downgrading della settimana scorsa è stato dovuto al timore che gli investitori privati non siano disposti a finanziare lo Stato portoghese, a causa della minaccia di coinvolgimento dei privati nelle perdite; ciò costringerà il Portogallo a chiedere un nuovo piano di aiuti che coinvolgerà i privati (la classica profezia che si auto-realizza).
Il piano francese
L’opposizione della Bce di alcuni partner europei ha indotto il governo tedesco a più miti consigli, ripiegando sul cosiddetto coinvolgimento “volontario” dei creditori privati. Questa è una evidente contraddizione in termini. Èben difficile che i creditori sopportino volontariamente perdite sui loro titoli. E così è nato il piano francese, elaborato dalla federazione bancaria di quel paese. In sostanza, quel piano prevede che le banche creditrici, quando ricevono 100 euro da un titolo greco in scadenza, prestino nuovamente 70 euro allo Stato greco comprando un titolo trentennale. Lo Stato greco, tuttavia, potrebbe utilizzarne solo 50 euro, poiché 20 dovrebbe accantonarli in un bond zero coupon (senza cedola) emesso da un emittente AAA. Fra trent’anni, i 20 euro investiti nello zero coupon saranno diventati 70, garantendo così alle banche la restituzione del capitale investito. In questo modo le banche rischiano solo il flusso di interessi sul nuovo prestito. Il piano è ingegnoso e ha senz’altro il merito di avere un orizzonte lungo, dando così alla Grecia il tempo per fare le necessarie riforme e un aggiustamento fiscale di ampia portata. Sotto questo profilo, le banche dimostrano di essere più lungimiranti dei governi che, l’anno scorso, confezionarono un piano di finanziamenti con un orizzonte limitato a tre anni. D’altra parte il tasso d’interesse proposto (5,5 per cento più il tasso di crescita del Pil greco) è oneroso per la Grecia, ma non molto di più di quello imposto dagli “aiuti” comunitari.
L’ipotesi di buyback
Nelle trattative tra banche e governi è emersa anche un’altra opzione: il buyback, avanzato dallo Istitute of International Finance. Seguendo questa idea, una possibilità è che il fondo di stabilità Efsf presti allo Stato greco i fondi necessari ad acquistare i suoi titoli sul mercato. Sfruttando il basso prezzo al quale i titoli sono scambiati, la Grecia potrebbe ritirare dal mercato 100 euro di debito pagandolo 50 euro, riducendo così lo stock di debito in circolazione. I 50 euro prestati dallo Efsf potrebbero essere remunerati a un tasso molto basso (vicino a quello privo di rischio), purché il fondo sia senior rispetto ai creditori privati: in caso d’insolvenza, deve avere la precedenza nei rimborsi. Le banche che aderissero al buyback dovrebbero contabilizzare una perdita. Tuttavia, potrebbe essere un modo per evitare un default in senso tecnico.
*articolo tratto da Lavoce.info