L’Europa ci scava la fossa per tenere in vita degli zombie

L’Europa ci scava la fossa per tenere in vita degli zombie

(Vi riproponiamo la nostra analisi pubblicata lo scorso 16 giugno) 

La ruota della storia gira. Negli anni ’80 fu l’America Latina a subire la crisi del debito con annessa ondata inflazionistica. Oggi è l’Europa, soprattutto quella mediterranea con l’aggiunta dell’Irlanda, a rivivere la stessa esperienza. L’inflazione galoppante non c’è ancora, ma secondo i critici è solo questione di tempo. La soluzione che i governi dell’Eurozona e la Bce hanno approntato è di sicuro pericolosa quanto il problema, e in parte lo sta complicando.

La cura proposta, infatti, è della stessa natura della malattia che si vuole curare: debiti, debiti, e ancora debiti. Solo che li si fa girare. Per esempio, via via che i vecchi debiti del Tesoro greco, oggi sono detenuti da banche, assicurazioni, hedge fund, arrivano alla scadenza, la Grecia li rimborsa con i soldi forniti, direttamente o indirettamente, dalla Banca centrale europea o dai governi dell’Eurozona. Lo schema-base del giro tondo di debiti è il seguente: l’Europa (Bce o Ue) presta i soldi alla Grecia, che rimborsa i soldi ai creditori, banche in primis, queste comprano i titoli governativi dei Paesi dell’Eurozona o bond emessi dal veicolo di salvataggio europeo, l’Efsf. Ogni emissione del veicolo, ovviamente, pesa sul debito degli Stati garanti: secondo alcuni calcoli, l’impegno dell’Italia nei confronti di Grecia, Portogallo e Irlanda nel periodo 2011-2014 ammonta a 33 miliardi di euro. 

Il «meccanismo di stabilità» così costruito fa sì che gradualmente il debito greco venga spostato: dagli investitori privati ai cittadini dell’Unione europea. Finché questo dura, bene (per gli investitori , non per i contribuenti). Ma a un certo punto, ribadiscono le agenzie di rating e gli osservatori più attenti, non sarà più possibile andare avanti. E allora si prospetterà l’inevitabile: il cambiamento, forzoso o volontario, delle condizioni originarie dei prestiti emessi, a condizioni di favore per il debitore. Cioè, comunque lo si chiami (ristrutturazione, reprofiling, riscadenzamento, etc.), il default, l’insolvenza, l’incapacità di onorare i propri impegni finanziari.

I prestiti accordati ai governi in difficoltà dell’Eurozona hanno superato da tempo il livello di guardia. In totale sono 273 miliardi di euro: 110 miliardi alla Grecia, 85 all’Irlanda, 78 al Portogallo. È in corso però la definizione del nuovo piano di aiuto finanziario per Atene, quantificato dagli operatori in circa 70 miliardi di euro. A questi andranno poi aggiunti ulteriori 20 miliardi – è di queste ore la discussione intorno a tale tema – di sostegno in caso di reprofiling (o riscadenzamento) del debito sovrano. Questa è infatti l’ultima ipotesi che arriva dalla Bce. Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano dell’istituzione di Francoforte, ha infatti nella serata di ieri aperto al reprofiling, spiegando che i tecnici dell’Eurotower ci stanno lavorando. Per quanto riguarda Irlanda e Portogallo, per ora, non sono previsti ulteriori esborsi, anche se le voci sui mercati finanziari si fanno ogni giorno più insistenti. 

Sebbene i prestiti erogati da Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Ue abbiano la conditio sine qua non del rigore fiscale dei Paesi a cui vengono elargiti, la voragine dell’indebitamento cresce sempre più. Lo ha detto anche Angela Merkel, cancelliere tedesco: «L’Europa non ha un problema di moneta unica, ha un problema di debito». E come tutti quelli che hanno un passivo troppo elevato, il rischio è che non possano riuscire più a onorare le proprie promesse.

Le tensioni finanziare si stanno accumulando, e la Grecia è da tempo candidata a essere l’epicentro del terremoto finanziario nell’Eurozona. Secondo Moody’s, che all’inizio di giugno ha abbassato il giudizio di affidabilità del debitore Grecia al grado Caa1, c’è il 50% di probabilità di dichiarare fallimento. È alto il rischio che Atene «fallisca nello stabilizzare la sua posizione debitoria senza una ristrutturazione». Questo per almeno tre ragioni: le sfide sempre più impegnative di riforma che ha di fronte il governo, le incerte prospettive di crescita dell’economia e una serie passata di insuccessi nel conseguire gli obiettivi di deficit. Sta crescendo, insomma, la probabilità che i soccorritori della Grecia (Fmi, Bce e Ue: la “troika”), a un certo punto, chiederanno la partecipazione dei creditori privati nella ristrutturazione del debito, come “precondizione per il “supporto finanziario”.

Per quanto male si possa pensare delle agenzie di rating e dei loro errori di valutazione su subprime e titoli tossici – e questo è uno dei tiri al bersaglio più di moda fra i politici europei – non si può più ignorare che quella di Moody’s è un’opinione che sempre più condivisa. Lo stesso ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha detto che per i titolari delle obbligazioni private sarà «inevitabile» partecipare al salvataggio: un modo per dire che devono mettere in conto un taglio del valore nominale del debito. Scenari che già oggi il mercato ha incorporato nelle quotazioni delle obbligazioni greche: due giorni fa Atene ha collocato bond con scadenza a 10 anni per 1,25 miliardi di euro, con un rendimento record del 17,12% e lo spread con il bund tedesco a 1.413 punti, un livello mai visto dalla nascita della valuta comunitaria. 

La grande domanda, come ha sottolineato nelle ultime settimane Paul Donovan, capo economista di Ubs, è «se il settore privato è disposto a sottoscrivere nuovi bond ellenici al posto di quelli andati a scadenza senza una qualche forma ufficiale di coercizione». Nel finale di aprile la casa d’investimento londinese Lombard Street Research aveva ipotizzato un haircut, un taglio al valore nominale dei bond, intorno al 60-70 per cento. «Non vediamo altre soluzioni per porre fine a questa tragedia greca», spiegava LSR. Diversa di poco l’opinione di Ubs, Morgan Stanley e Société Générale. Per la banca elvetica, la ristrutturazione sarebbe arrivata nel 2012, mentre per quella francese «probabilmente sarà ritardata fino al 2013 o forse oltre». Più tranchant la valutazione della banca statunitense, che già nel finale del 2010 aveva raccomandato ai propri investitori di chiudere qualsiasi posizione su Atene. Lunedì 13 Standard & Poor’s ha ridotto il rating di lungo termine sulla Grecia a CCC, un giudizio che implica la probabilità di un default entro i prossimi 12 mesi. La stessa agenzia stima che, mediamente, i possessori di bond greci possano recuperare fra il 30 e il 50% del valore nominale. In pratica, un’haircut compreso fra il 50 e il 70% dei titoli detenuti in portafoglio. Il tutto, senza contare l’influenza delle norme di Basilea III sui coefficienti patrimoniali delle banche. 

Chi salva chi?

Sempre il primo giugno, l’Autorità bancaria europea ha lasciato trapelare che erano stati rinviati i famosi e attesissimi stress test, ossia le verifiche sul grado di resistenza delle banche a condizioni economiche più difficili rispetto a quelle attualmente previste. I dati comunicati dalle banche, è la spiegazione ufficiale, erano o incoerenti o basati su ipotesi irrealistici. Perciò ci sarà una nuova fase di raccolta dati nella seconda metà di giugno (la data inizialmente prevista per la pubblicazione dei risultati), mentre non è stato detto quando verranno rese note le pagelle. Probabilmente a luglio. Come leggere questo rinvio? Un segno di inflessibilità da parte della neonata autorità bancaria o una scusa buona per procrastinare l’ammissione di casi problematici o per trovare il tempo di sistemarli?

Quel che è certo è che sono sei le grandi banche europee, tutte di rilevanza sistemica,  le cui sorti sono strettamente connesse a quelle di Atene. Al primo posto, secondo calcoli elaborati dalla Goldman Sachs, la francese Bnp Paribas con 5 miliardi di euro (esposizione che le è costata l’osservazione di Moody’s per un possibile downgrade), seguita dalla belga Dexia con 3,5 miliardi e dalla tedesca Commerzbank con 3 miliardi. Poco sotto Société Générale con 2,7 miliardi di euro di esposizione, l’olandese Ing con 2,4 miliardi e la maggiore banca tedesca, Deutsche Bank, con 1,6 miliardi. Nel complesso fanno, secondo la Banca dei regolamenti internazionali (l’organismo all’interno del quale vengono elaborate, le regole sui requisiti patrimoniali, note come “accordo di Basilea”), circa 136 miliardi di euro, quattro dei quali sono detenuti da istituti italiani. Il grosso del pacchetto è in mano alla Francia, con 56,74 miliardi di dollari, 14,96 dei quali in bond. Segue la Germania, con 33,974 miliardi, di cui 22,651 in titoli di Stato. L’Italia ha un’esposizione di 2,85 miliardi di euro. 

La tensione è tale che, prima di partire per la presidenza della Bce (o meglio, secondo alcuni, proprio per conquistarsi l’ambita poltrona all’Eurotower di Francoforte), il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha imposto un giro di ricapitalizzazioni a tutta l’industria bancaria italiana. «Tra ottobre del 2010 e aprile di quest’anno – ha detto Draghi in occasione delle Considerazioni finali – sono stati varati aumenti di capitale per oltre 11 miliardi». Cifre che sicuramente servono ad irrobustire le spalle del sistema, ma che sono anche una riserva di emergenza a sostegno del Tesoro, qualora nelle aste di Bot e Btp ci fossero problemi di assorbimento dell’offerta. Questo accordo di sistema, però, ha qualche inconveniente. Nell’ambito delle Conversazioni sui Buy Out, gli incontri periodici che l’Aifi organizza per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle istanze del mondo del private equity, l’ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco ha rimarcato l’effetto negativo che questo produce sulla quantità di risorse a disposizione per il settore privato. Un effetto che è noto nella letteratura economica come crowding out o spiazzamento.

Spesa pubblica e debiti fuori controllo

Nel 2009 la Grecia  aveva un rapporto debito/Pil del 127%, nel 2010 del 144% e per l’anno in corso dovrebbe attestarsi sopra quota 150%, sfiorando il 160. Nel complesso lo stock del Pil è di 302 miliardi di dollari, mentre l’esposizione complessiva dei propri titoli di Stato, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, è di 278 miliardi. Il debito, invece, sugli schermi Bloomberg è dato a quota 340 miliardi di euro, mentre il deficit per i primi cinque mesi dell’anno ha sorpassato quota 10 miliardi, ben oltre le previsioni del ministero delle Finanze ellenico. Sono in arrivo altri 70 miliardi di euro, che serviranno a spostare solamente la data della presa di coscienza che Atene non è illiquida, è insolvente. Lo ha spiegato l’Economist a giugno 2010, un mese dopo il primo bailout, ma né da Francoforte né da Bruxelles vogliono sentirci. Eppure, i bilanci ellenici parlano chiaro.

L’Irlanda, invece, nel 2009 aveva un debito al 65% del Pil, valore che si è impennato l’anno dopo, toccando quota 94 per cento. Il 59% è in mano estera. Per il 2011 sarà superata la soglia psicologica del 100% di oltre 11 punti percentuali. Minore rispetto a quello ellenico è il prodotto interno lordo irlandese, 208 miliardi di dollari. Basti pensare che la sola Banca centrale d’Irlanda ha oltre 200 miliardi di euro di passività per capire in che stato versa l’economia dell’isola. Questo nonostante un singolare programma messo a disposizione dalla Bce, l’Emergency liquidity assistance (Ela), che ha permesso a Dublino di stampare euro, in deroga ai trattati comunitari, per sostenere i propri istituti di credito con 51 miliardi di euro. Anche in questo caso, soldi che sono andati in fumo sotto il peso delle passività sistemiche.

C’è poi il Portogallo. Il rapporto debito/Pil nel 2009 era del 77%, salvo poi aumentare fino all’89% nell’anno appena concluso. La percentuale di debito in mano estera è pari al 57% dello stock totale. L’economia lusitana produce circa 280 miliardi di dollari l’anno ed è proprio quello il nodo principale per Lisbona: troppo basso il tasso di crescita. Secondo il World economic outlook Fmi dello scorso aprile, la crescita del Paese lascerà sul terreno un punto e mezzo percentuale rispetto al 2010, l’inflazione crescerà del 2,4%, i senza lavoro saranno l’11,9% della popolazione attiva. Sebbene l’indebitamento sia “solo” al 77% del Pil, circa 145 miliardi di euro, il deficit di Lisbona è a livelli record: 9,1% del Pil. Se poi a una congiuntura avversa si aggiunge l’instabilità politica e il rischio contagio dai Paesi periferici, ecco che la sofferenza arriva anche per il Portogallo. C’è però un distinguo. Se Atene e Dublino sono insolventi, Lisbona sta patendo una crisi di fiducia. Lo dimostra l’andamento delle aste dei titoli di Stato. I rendimenti sono in aumento, ma non si intravedono problemi di rifinanziamento.

Infine,  Spagna e Regno Unito. Dove il debito pubblico, a forza di revisioni al rialzo della spesa pubblica anno su anno, dovranno presto fare i conti con gli squilibri. A preoccupare è soprattutto Madrid, dove la bolla immobiliare e l’andamento del mercato del lavoro rischiano di far entrare la crisi europea dei debiti sovrani in una nuova dimensione, quella dei paesi too-big-to-bail, troppo grandi per essere salvati. Sì, perché un conto è salvare Atene, Dublino e Lisbona, un altro è sostenere Madrid, Roma o Londra. E non c’è meccanismo che tenga: l’Ue non ha la forza per sopportare un bailout sistemico. Né si può realisticamente immaginare che i tedeschi si immolino sull’altare dell’euro.

L’arbitraggio dei tassi

Gli aiuti concessi ai Paesi bisognosi prevedono tassi di interesse di favore. Eppure sembra che nemmeno questo basti.  Nelle scorse settimane, era stato l’Irish Times ad affermare che nel corso degli incontri per fare fronte alla difficile situazione di Atene era stato posto sul tavolo tedesco l’abbassamento dei tassi di interesse di un punto percentuale sul prestito congiunto Efsf-Fmi da 85 miliardi di euro. Attualmente, i tassi del prestito irlandese sono calcolati sul tasso Euribor a tre mesi più 300 punti base per i prestiti inferiori a 3 anni e più 400 punti base per quelli superiori, un valore che si aggira al 5,83 per cento. Un livello considerato «punitivo» dal nuovo primo ministro Enda Kelly, che aveva affermato «Non c’è dubbio che una riduzione nei tassi sui prestiti europei sarebbe una misura sensata e apprezzabile», riconoscendo poi che «senza una forte crescita, rimangono le domande sulla sostenibilità del pesante fardello del debito». Una riduzione dei tassi è già messa in atto lo scorso gennaio sui 22,5 miliardi di euro forniti dal Fmi, che sono passati da 3,17 a 3,04% sui prestiti di durata inferiore a tre anni, e da 4,04 a 3,85% su quelli superiori.

Da Dublino a Lisbona la situazione non cambia. Nel caso dei 78 miliardi di euro per dare ossigeno alle casse pubbliche portoghesi, era stato il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, ad annunciare che «la forchetta dei tassi oscillerà tra il 5,5 e poco meno del 6%». Il rendimento dei bond portoghesi con scadenza decennale è del 10,8%, gli omologhi titoli di debito irlandesi pagano l’11,1 per cento: tassi elevatissimi se confrontati con il 2,9% del bund decennale tedesco. Al momento in cui scriviamo, il debito irlandese ha raggiunto i 106 miliardi di euro – 94% del Pil – il deficit è al 10% del Pil e un tasso di crescita di mezzo punto percentuale (stime 2011 Fmi World Economic Outlook) così come l’inflazione, e un tasso di disoccupazione che sfiora il 15 per cento. Davy, una casa di brokeraggio irlandese, ha stimato che per equilibrare il debito/Pil l’economia di Dublino dovrebbe crescere ad un tasso del 4 per cento annuo. 

Il rendimento dell’emissione Efsf di ieri, 8 miliardi di euro con scadenza a 10 anni, avrà un rendimento di 17 punti base sopra il Mid Swap (la media tra domanda e offerta) del decennale, ovvero tra 3,29 e 3,33 per cento. La precedente offerta, pari a 5 miliardi di euro con scadenza al 2016, ha un rendimento del 2,76%. Un livello dunque più basso di quello che applica ai prestiti a Grecia, Irlanda e Portogallo, allora l’Efsf sta creando soldi facendo arbitraggio sul mercato per portare stabilità: un hedge fund dal cuore buono. Sempre che non ci siano ulteriori ostacoli di mezzo e che il contagio della tragedia ellenica venga arginato al più presto in caso di riscadenzamento del debito. 

Chi pagherà il conto?

Finora l’Unione europea ha utilizzato un metodo di gestione delle criticità debitorie molto particolare. Il Patto di stabilità, da poco aggiornato tramite l’Euro Plus che entrerà in vigore nel 2013, non aveva un concreto meccanismo sanzionatorio in caso di sforamento dei parametri minimi (deficit non superiore al 3%, debito non superiore al 60%). Tutto ha funzionato, più o meno bene, fino a quando non è scoppiata la bolla immobiliare statunitense. Nell’agosto 2007, quando BNP-Paribas congelò tre suoi fondi per l’oggettiva incapacità di prezzarli, la Bce intervenne immediatamente con l’iniezione di liquidità nell’eurozona. I mercati capirono che l’azzardo morale era innescato. Allo stesso modo, i governi compresero che, come suol ripetere il numero uno dell’Eurotower Jean-Claude Trichet, «problemi straordinari necessitano di soluzioni straordinarie». Ecco quindi che, per l’ennesima volta, si è legittimata la spesa in deficit. Peggio, ancora: in modo surrettizio, la Banca centrale europea ha di fatto cominciato a stampare moneta, accettando a garanzia dei finanziamenti alle banche titoli di Paesi che, nei fatti, non erano più “bancabili” (o eligible nel gergo della banca centrale)

Il vero problema, e lo dimostra l’attuale crisi debitoria, è che prima o poi i contratti vanno onorati. Intervenendo come prestatore di ultima istanza a più riprese, la Bce ha permesso che nelle menti dei governanti aleggiasse l’idea che «tutto era permesso». Vale a dire, spesa a go-go, specie se in un regime di tassi d’interesse ai minimi storici. Nel tentativo di stimolare l’economia dopo la recessione, gli Stati hanno speso. Nessuno ha controllato, perché «problemi straordinari necessitano di soluzioni straordinarie». Il risultato? Ora a rischiare il tracollo non è solo una sola economia, ma tutta l’Eurozona, ma di mezzo, potrebbe andarci anche la stessa Banca centrale europea: non esistono cifre ufficiali, ma secondo le stime del mercato sarebbero 80 i miliardi euro in titoli greci, irlandesi e portoghesi come collaterale in pancia all’istituto di Francoforte. Che, a sua volta potrebbe avere bisogno di ricapitalizzare. Altro giro, altra corsa. È la ruota della storia. 

Contributi di Lorenzo Dilena, Fabrizio Goria, Antonio Vanuzzo
 

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