Nel bel mezzo di una crisi di fiducia sul debito italiano che rischia di far rimpiangere quella in cui il Tesoro si trovò nel 1992, l’Italia e i mercati non sanno ancora chi sarà il nuovo governatore della Banca d’Italia. Vero è che c’è teoricamente tempo fino a fine ottobre: il governatore uscente Mario Draghi assumerà infatti l’incarico di presidente della Bce solo da novembre. Vero è anche che il brodo di coltura della speculazione sono le incertezze sui conti pubblici più che quelle sul nome del prossimo governatore.
Altrettanto vero è che più che a tagliare sin da subito, e con efficacia immediata, la spesa pubblica, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si è dato parecchio da fare perché nello scranno più alto della Banca d’Italia arrivi un suo fedelissimo, il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli. Sulla questione, dopo la censura del Quirinale sulle «laceranti dispute sulla nomina del nuovo governatore» e sulle «forzature politiche e contrapposizioni personali», il premier Silvio Berlusconi si è impegnato «un procedimento non affrettato e proporzionale alla scelta della carica». Il procedimento – disciplinato dall’articolo 19 della legge 262/2005 e dall’articolo 17 dello s tatuto della Banca d’Italia – richiede la costruzione di un consenso plurimo, di cui la nomina con decreto del Presidente della Repubblica è l’atto finale.
Il potere di proposta spetta al premier, sentito il parere non vincolante del Consiglio superiore della Banca d’Italia, che delibera con maggioranza di due terzi. A questo punto la proposta va in Consiglio dei ministri per l’approvazione e poi passa al Quirinale per la firma del decreto. In nessun passaggio è previsto un ruolo specifico del ministero dell’Economia. Anzi, da un buon ventennio e anche più, nel sistema di check and balances della politica monetaria Tesoro e Bankitalia si trovano su fronti opposti ed è bene che lì rimangano, senza indebiti tentativi di influenza.
Nelle scorse settimane, l’attivismo di Tremonti in questa vicenda ha raggiunto livelli parossistici tali da compensare tutta la mancata supervisione alle nomine negli enti e partecipate pubbliche, delegate invece al suo braccio destro Marco Milanese, che quelle nomine “monetizzava” con disinvoltura. Il ministro che ha sempre rivendicato di aver fatto “politica alta” e, ancora stamattina, di non essere «mai stato sfiorato da uno schizzo di fango», sembra aver fatto un punto di onore nel posizionare l’ennesimo suo uomo, ma questa volta non in una partecipata ma al vertice della Banca d’Italia.
Grilli è certamente un tecnico di valore e che gode di grande reputazione. Ma, per sua sfortuna, oggi si trova a godere del patronage di un ministro la cui credibilità e affidabilità esce piuttosto a pezzi dalle carte dell’inchiesta che toccano Milanese, nella cui abitazione romana, presa in affitto a 8.500 euro al mese, Tremonti abitava o, per usare il legalese del ministro, di cui Tremonti aveva un utilizzo parziale temporaneo.
Tremonti non poteva non sapere, e se non sapeva è colpa politica non meno grave – che, anche al di là dei compensi illeciti (viaggi, orologi, denaro, immobili, etc) che gli vengono contestati dalla procura di Napoli, Milanese percepiva fior di compensi dal ministero dell’Economia e da società pubbliche e anche private. Tremonti non poteva non sapere nemmeno che la sua portavoce Manuela Bravi, compagna di Milanese, aveva cumulato il ruolo di consigliere per la comunicazione politica del ministro con quello di Direttore Relazioni istituzionali, Immagine, Comunicazione, Arte ed Editoria, dell’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato. Una doppietta di cariche che frutta 290mila euro l’anno: 215mila euro dal Poligrafico e il resto direttamente dal ministero.
Se e in che misura questo ménage ai piani alti del ministero dell’Economia, con annesso «utilizzo temporaneo di parte dell’immobile» in via Campo Marzio a Roma, sia dovuto a un “tratto caratteriale che gli amici definirebbero tenerezza e i nemici fragilità”, come scrive oggi il Corriere, è faccenda secondaria. Rileva invece da un lato una presunzione di sicurezza Tremonti, che tanto sul fronte del debito quanto su quella della “politica alta” sta rivelando parecchie falle.
Con questo trackrecord alle spalle, di cui l’Italia è venuta a conoscenza fra una manovra tardiva e con parecchi profili di iniquità e la più grave crisi di fiducia internazionale dai tempi di Mani pulite, nessuno si strapperà i capelli se Tremonti e i suoi candidati rimarranno ben lontani dalla Banca d’Italia, istituzione che, pur non essendo esente da errori, è l’ultimo baluardo di credibilità internazionale rimasto al Paese.