Proprietari di bar che, in media, dichiarano 16mila euro l’anno di reddito. Poco? Un po’ meglio dei ristoratori: 14.300 euro. Una miseria che, stando ai dati relativi al 2008, è condivisa dai gioiellieri, mentre stanno un po’ meglio i giornalai (18mila euro), i concessionari di autoveicoli (17.700 euro) e persino i gestori di pompe funebri (32.800 euro). Ma anche avvocati (46.700 euro) e commercialisti (50.800 euro), a dispetto del tenore di vita che solitamente si può osservare, non sembrano vivere nella bambagia. E d’altra parte, l’Italia è il paese dove i contribuenti con reddito superiore a 100mila euro sono appena 394.327 (dichiarazioni 2010 sull’anno 2009). Accusare intere categorie di essere la sentina dell’evasione è esercizio che non porta da nessuna parte, se non a esasperare la convivenza sociale in un momento non facile per l’Italia. Ma la domanda resta: come può l’Italia recuperare i soldi sottratti al fisco dagli evasori? Ovvero, in che modo si può arrivare a far sì che tutti facciano la loro parte, nell’emergenza finanziaria come nella normalità?
Linkiesta ne ha parlato con Enrico Zanetti, direttore di Eutekne.info, la rivista web dell’omonima associazione-centro studi promossa da un gruppo di commercialisti nel settore delle discipline giuridico-economiche. Pur riaffermando l’importanza del contrasto dell’evasione più sofisticata messa in atto verso i grandi gruppi («ma si tratta di un fronte già oggi ben presidiato»), Zanetti osserva che «quella che è considerata la forza produttiva del nostro Paese, e lo è, è anche il più grande problema per la riscossione fiscale». Il riferimento alla piccola-media impresa e ai soggetti autonomi con partita Iva è inequivocabile.
Lavoratore autonomo uguale evasore incallito è un pregiudizio ideologico, le risponderebbero i diretti interessati.
E avrebbero ragione, se la ponessi su questo piano, perché invece, alla base, c’è una scarsa tendenza alla legalità in Italia, che vale indistintamente per tutti. Nel caso delle piccole e micro imprese e dei lavoratori autonomi, non è un pregiudizio ideologico, ma una questione pratica. Nel momento in cui la gestione e la proprietà coincidono, o anche solo chi controlla i flussi di cassa è chi possiede l’impresa, allora è più semplice occultare gli incassi. Il punto è la gestione dell’azienda: quando le persone che amministrano e gestiscono l’impresa sono imparentate, la reportistica non è strettamente necessaria, e in questo modo si possono creare delle economie parallele.
L’anagrafe tributaria non può nulla verso questa categoria di evasori?
L’anagrafe tributaria italiana è tra le più potenti al mondo, forse la più potente, possiede una quantità di dati enormi. Quando gli stranieri guardano alla nostra anagrafe sono impressionati, in modo positivo. Una risorsa che ha, però, un limite. Anzi, due. Il primo è la capacità di utilizzo dei dati, spesso poco sfruttati. Il secondo sta nell’utilizzo delle risorse, troppo sbilanciato nel monitorare, controllare e passare al setaccio i soggetti che sono già emersi al fisco. Da questo punto di vista, dal 2006 in avanti, e poi con Tremonti dal 2009 è stato fatto un grande lavoro. Invece, è insoddisfacente l’azione di controllo sugli evasori totali o paratotali, che all’anagrafe non sono noti. Si tratta di operazioni che richiedono più fatica e tempo, oltre a spostamenti e visite.
Quali altri strumenti si potrebbero utilizzare?
Non c’è un a parte questo, perché questo e non altro è il punto. A livello di strumenti, in Italia c’è già di tutto. Una delle poche cose che ho sentito e che non c’e in Italia è l’idea di abbinare gli scontrini e le ricevute a una lotteria nazionale, come fanno in alcuni Paesi dell’Estremo oriente. Ogni scontrino avrebbe, dietro di sé, un numero, e partecipa all’estrazione. Chi più ne ha, più può vincere, e sarebbe incentivato a chiederlo all’esercente.
Da noi si parla spesso della contrapposizione di interessi, nella convinzione che la possibilità di detrarre alcune spese spinga il contribuente a richiedere la fattura.
Ha ragione l’Agenzia delle entrate a dire che è un’idea più bella a parole che sul piano pratico. I controlli da fare, anche capillari, sarebbero tantissimi e, di fronte a 40 milioni di contribuenti, la massa documentale diventa enorme e ingestibile. Il rischio è che si dichiarino fatture false, per spese non compiute, o che l’importo di fatture per spese effettivamente compiute venga gonfiato.
Da un lato c’è chi accusa il governo di avere fatto poco contro l’evasione, dall’altro Tremonti può giustamente vantarsi di aver recuperato 25 miliardi di tasse evase, un record assoluto.
Onestamente, va riconosciuto che Tremonti ha introdotto una serie di severe disposizione che nemmeno Visco. Il problema è che sono norme squilibrate: perché non si può inasprire solo l’accertamento e la riscossione senza rafforzare la giustizia tributaria, sennò così si rischia di cadere in un sistema di oppressione fiscale, tant’è che non molto tempo fa sia il ministro sia l’Agenzia delle entrate hanno dovuto fare ammenda.
A parte il capitolo delicato della giustizia tributaria, che cosa non va nell’impostazione data da Tremonti al fisco?
C’è ancora una forte concentrazione dell’attenzione sui soggetti già emersi per vedere se chi paga, poniamo, 100, non avrebbe dovuto pagare invece 120, sulla base di deduzioni non spettanti. Nei nostri organi di polizia tributari, prevale una vocazione impiegatizia anziché investigativa. In sostanza, anziché scovare ciò che non è stato dichiarato, l’attitudine è di questionare su quanto è stato dedotto. Ovviamente, serve l’uno e l’altro, ma ci vorrebbe più equilibrio fra l’attività di contestazione del dichiarato e quella di investigazione per l’emersione del nero. Al contrario, non c’è sufficiente attenzione alla parte di reddito che viene sistematicamente occultato. Il problema dell’evasione fiscale di massa lo si risolve facendo dichiarare 70-80 a chi invece ne dichiara 10-15 o invece non dichiara nulla.
Categorie professionali come ristoratori, titolari di bar, tassisti, macellai, parrucchieri, ma anche commercialisti e avvocati, in media, dichiarano importi che mettono a dura prova il senso comune.
L’occultamento puro e semplice del ricavo è maggiore nel piccolo che nel grande, nel settore dei servizi più che nella produzione o commercializzazione dei beni, nelle attività svolte a favore di consumatori finali che in quelle svolte a favore di imprese o pubbliche amministrazioni, nelle attività che non prevedono l’applicazione di ritenute alla fonte che in quelle che la prevedono. Per questo, i liberi professionisti dichiarano redditi medi sensibilmente superiori ad artigiani e commercianti, i commercialisti dichiarano redditi superiori agli avvocati e, tra gli avvocati, quelli che fanno diritto commerciale dichiarano più dei divorzisti o dei penalisti. Sempre in media sia chiaro, poi ognuno fa storia a sé. Quelle sono le determinanti dell’evasione, c’è poco da fare.
E sui grandi gruppi?
I grandi gruppi sono già oggi adeguatamente presidiati, l’amministrazione finanziaria è già attrezzata per combattere l’elusione, che comunque, vorrei sottolineare, è ai livelli fisiologici di altri Paesi. Dove c’è vera patologia, invece, è l’evasione fiscale di massa a livello micro. In Italia la soluzione al problema dell’evasione fiscale si avrà quando si riuscirà ad alzare il reddito medio dichiarato, che è bassissimo.
Ci tocca aspettare una conversione etica di massa alla legalità?
Lo strumento più idoneo, a patto di non utilizzarlo in modo poliziesco e oppressivo, è il redditometro. Questo governo ha deciso di puntarci con decisione e, a mio avviso, ha fatto bene. Ora però deve stare attento che lo strumento non gli scappi di mano, venendo costruito come una sorta di studio di settore per famiglie che pretende di standardizzare il reddito sulla base di variabili quali l’area territoriale di residenza, la composizione del nucleo familiare e la natura più o meno voluttuaria dei consumi effettuati.
Come deve essere configurato il redditometro, allora?
Deve limitarsi a tradurre in reddito le spese monetarie rilevate e le spese di gestione di beni mobili e immobili di cui il contribuente ha effettiva disponibilità. I coefficienti di moltiplicazione statistica lasciamoli ai Paesi in cui c’è il concetto di economia pianificata ed è lo Stato a decidere quanto ciascuno guadagna. Anche se credo che, per fortuna, di Paesi così non ne esistano più da almeno vent’anni.