Si stia attenti: questa non è cultura alta, ma le somiglia. È il midcult all’italiana: alimentato da una vena di marketing, cresce e fiorisce, fino ad assumere lo status dell’icona culturale, e consegnare al Paese un nuovo intellettuale. Questo, il punto di partenza (e di arrivo) per capire Popstar della cultura, la resistibile ascesa di Roberto Saviano, Giovanni Allevi, Carlo Petrini, Beppe Grillo, Mauro Corona e Andrea Camilleri, di Alessandro Trocino, giornalista del Corriere, pubblicato da Fazi Editore. Un libro che tenta, senza cedere a condanne di capire le storie, le cause e i trucchi di declini e ascese di personaggi che popolano l’immaginario contemporaneo. Che definiscono gusti, tendenze e, in alcuni casi, adesioni di culto. Non gli eroi cui accenna il Galileo di Brecht, ma più una teoria di nuovi santi e martiri che raccolgono su di loro nuovi peccati e nuove preghiere. E per Trocino si tratta di retorica, conformismo di massa, pseudo-nostalgia, indignazione inattiva, il gusto di assistere allo spettacolo dell’apocalisse prossima ventura. Sia chiaro: non è il primo a denunciare queste cose (e c’è da sospettare che non sarà nemmeno l’ultimo). Ma ha il merito di farlo more geometrico, squadrando le figure e intervenendo con il bilancino della prudenza, che in molti casi lo salva da pericolose derive. Perché si sa, quando si parla di Beppe Grillo o di Roberto Saviano, più che di Camilleri o Mauro Corona, si rischia di sfiorare sentimenti viscerali di adorazione o di odio di volta in volta. Il rischio è che l’analisi risulti fredda, a volte. Però funziona.
Il catalogo si apre con Roberto Saviano. Trocino ripercorre, in poche pagine, la vita dell’autore di Gomorra. Era un «giornalista come tanti, con il vantaggio di una grande passione e di una tenace ambizione». Poi, la svolta, fiutata dalla Janeczek, di un romanzo “nuovo”, sulla camorra. Dalle prime (poche vendite) alla scalata nell’immaginario collettivo, con la sfida pronunciata ai boss, le apparizioni televisive, i picchi di acquisti e gli interventi sui maggiori giornali nazionali, lui che «prima non avrebbe mai messo piede in un grande quotidiano nazionale, diventa la gallina delle uova d’oro di una macchina editoriale» che lo stritola, lo impacchetta in un volto torvo e segnato dalla sofferenza, lo trasforma in un santino. Certo, sottolinea Trocino, Saviano aveva voluto che la lotta alla camorra diventasse una «moda», ma il problema è proprio lì: Gomorra, Saviano, il sostegno incondizionato che gli viene attribuito diventano la soluzione, per molti, «per uscire dal solipsismo colpevole di omissione di soccorso nei confronti della realtà». Insomma, grazie a lui «l’Italia si pulisce la coscienza senza pagare pegno». Il suo «sacrificio» genera invidia ma al contempo lo trasforma da scrittore, quale lui vorrebbe essere, a testimonial del mezzogiorno migliore, lo assimila al «Che Guevara stampato sulle magliette» o al terzomondismo della Grande Chiesa di Jovanotti, lo rende intoccabile ma toglie dalla discussione la sola cosa importante prodotta da Gomorra, la lotta alla criminalità. Posizioni dure, senz’altro, ma il bilancino di Trocino non manca mai. Il solo Saviano, con la storia della sua vita, le pressioni che davvero subisce, la contorsione degli effetti rispetto alle sue azioni suscitano un rispetto sincero, estraneo e umano, che l’autore riesce bene a tenere separato rispetto alla macchina che è cresciuta intorno e grazie all’icona di Gomorra.
Di tutt’altro tenore è invece la trattazione di Giovanni Allevi, attraverso il quale Trocino entra nel mondo della musica classica di oggi. La biografia del pianista compositore baciato dalla fortuna più che dalla Musa ha toni di scherno cui, va detto, non è facile resistere. Solo raccontando la sua storia, emerge con chiarezza la distanza tra ciò che racconta Allevi si sé, e ciò che accade. I fatti, perlopiù, non collimano. Se è vero che nella scuderia di Jovanotti, quel ragazzo «un po’ chiuso» veniva vessato con scherzi e crudeltà, sembra improbabile che «l’imbranato, l’incompreso, il brutto anatroccolo, l’albatros di Baudelaire si chiude imbronciato in camera e legge, o così dice, l’heideggeriano Essere e Tempo, macerandosi sul tempo escatologico della parusia». Già, perché, come spiega Saturnino, bassista di Jovanotti, Allevi deve ad altri la parte più importante della sua carriera, cioè «la creazione del suo personaggio». E si tratta del manager Riccardo Vitanza. Gli viene costruita intorno un’aurea semi-divina, di musicista tormentato e ispirato, quasi costretto a comporre capolavori, con danni alla salute e attacchi di panico. Che tutto sembri una montatura, Trocino non lo dice. Folgorante, però, è l’accenno ai capelli di Allevi: «uno si aspetta che quella catasta di ricci sia naturale», e invece no. Merito di un trucco, o meglio, di un cosmetico «il balsamo Hydra Ricci della Garnier». Sulla qualità della sua musica, non ci si sbilancia. È vero che la “musica classica contemporanea” di Allevi convince poco gli esperti, ma è anche vero che gli esperti stessi gli hanno fornito le armi con cui difendersi. Nella dialettica del genio incompreso dall’accademia, topos coltivato dal musicista, emerge la totale incapacità del mondo della musica clssica di saper essere qualcosa di più di un rito formale e antiquato, di lasciarsi studiare e capire, di non essere elitario. Insomma, sembra dire: non lamentiamoci se poi piace chi più che alle orecchie pensa alla pancia.
E, parlando di pancia, non può mancare Carlin Petrini. Definito «gastrofighetto». Sotto studio la storia di un uomo che, dalla militanza nella sinistra, è finito a difendere il sogno di una natura incontaminata e nutriente, di campagna, nostra, e quasi eroica nel suo scontro con la produzione industriale. Un sogno che gli ha fruttato un marchio, Slow Food, e un discreto successo economico. Lo studio di Petrini è importate, sembra dire Trocino, perché mette in luce un vizio antico e pericoloso: la nostalgia del passato. Una trappola anti-storica che passa per le vie del gusto e arriva a forme di protezionismo alimentare reazionarie, (e appoggiate dalla Lega). Petrini è l’esempio di una parabola esemplare. Non è l’uomo «del radicchio nello spazio» quanto quello che propone il bando dell’ananas, in nome di una cultura campagnola inesistente e mai esistita, ma di sicuro appeal, almeno per tutti quelli che possono permetterselo. Un vizio pericoloso perché anti-moderno e superficiale. Legato alla rinuncia al presente e alla rassegnazione nei confronti del futuro, dal quale non può venire nulla di buono.
E del resto, campione della rinuncia al futuro, ma declinato con toni apocalittici, è Beppe Grillo. La biografia del comico genovese che si trasforma in capopopolo anti-casta è stata analizzata da molti. Trocino sceglie di porre in luce le contraddizioni: ad esempio, se ora Grillo è paladino della rete, fino a pochi anni prima distruggeva computer («computer io ti odio») a martellate nei suoi show in giro per l’Italia, quasi invocando un nuovo luddismo. Merito di un fiuto sagace, senz’altro, e del fantasma che gira per l’Italia in questi tempi: l’indignazione. Grillo è populista. A capo di un seguito di fan, ha abbracciato battaglie per la legalità e per una nuova politica, grazie alle sue doti retoriche di oratore. Molte idee sono condivisibili, come la denuncia degli sprechi e della corruzione, ma altre del tutto prive di fondamento, spiega Trocino, come quando ha abbracciato la terapia Di Bella o negato l’Aids. «Nella notte di Grillo tutti i gatti sono bigi», spiega. E ciò che in fondo non gli perdona è «l’aver spacciato banalità e luoghi comuni per verità», demonizzando l’avversario, qualsiasi avversario, con toni iperbolici e senza possibilità di analisi.
Il libro si conclude con altre due figure: Mauro Corona e Andrea Camilleri. Il primo ripresenta lo stesso vizio che sta alla base dello Slow Food: la nostalgia per la natura, per il selvatico e puro. Declinato, però, in salsa letteraria e spostato dalla campagna alla montagna. L’avventura di uno scrittore che incarna in sé già il personaggio rude e selvaggio della foresta, che scolpisce il legno e ama la natura, è culminata con la cristallizzazione della sua stessa figura. Un caso in cui il marketing ha superato e rimodellato l’identità dello scrittore. Su Camilleri, caso letterario da decenni, dice di più. In primo luogo, il conformismo della critica. Osannato ai suoi albori (che si sa, son giunti tardi), era amato per come sapeva rappresentare la Sicilia e per l’ardita invenzione linguistica, financo paragonata a Gadda. Sono bastati pochi anni perché Camilleri cadesse in disgrazia, proprio a causa del modo in cui rappresentava la Sicilia («fatto di stereotipi, luoghi comuni e ingenuità») e per l’uso della lingua. Non passa inosservata la serialità dei suoi romanzi, nei temi simile a quella di un telefilm e nel metodo di scrittura simile a una fabbrica, cui segue una perdita di qualità notevole. Tutto ciò, però, non ne ha intaccato il successo tra i lettori, tanto da permettergli di ritagliarsi un ruolo da coscienza critica e civile. Un paradosso, ma solo all’apparenza, che Trocino spiega bene come un impasto tra nostalgia e conformismo.
Ed ecco spiegata la nuova generazione di intellettuali pop dell’Italia degli ultimi anni. Martiri, santi e testimoni di mondi che non sono mai esistiti. Non trasformano la complessità in semplicità, ma sfruttano luoghi comuni e li spacciano per valori. Assecondano istinti pericolosi, alimentano ideologie di poca portata e vivono grazie ad accorte strategie di marketing (oltre che a falle enormi della cultura italiana, dalla musica alla letteratura, dalla politica alla cucina). Un nuovo mondo che, spiega Trocino non ci fa bene. Ma che forse ci rappresenta molto, troppo.