Il calcio italiano si ferma. Ma purtroppo solo per una giornata. Dopo le schermaglie di rito e la giornata saltata, l’accordo si troverà, lo sappiamo. Lo sappiamo che poi la giostra ripartirà come se nulla fosse. Che Abete dirà, alla Cocciante, che era già tutto previsto, che tra gentiluomini non c’è nemmeno da dubitare. Che De Laurentiis se ne uscirà sorridendo come fanno Christian De Sica e gli altri nel finale dei suoi cinepenettoni.
Epperò, epperò, perché non ci regaliamo un attimo di illusione? Un fermo immagine, una frase shock che campeggia in video, on line e sui quotidiani di carta: l’accordo non si trova e la serie A si ferma. Non per una giornata, ma per un anno.
Che cosa succederebbe in Italia? Scene d’isteria, certo, sit-in, girotondi,raccolte di firme da parte degli ultrà. Ma poi, pian pianino, ci si abitua. E, se ci pensi, una sensazione di leggerezza ti pervade. Ti senti più disteso. Ti adagi sul letto o su un divano, e la tua mente va a tanti anni fa, agli indimenticabili anni Settanta. Alla crisi petrolifera, alle 124 sport ferme per far posto alle biciclette, ai pattini, alle domeniche a piedi.
Magari col pallone, ma senza Annabillòdabordocampo, senza quelle imperdibili interviste prepartita. Senza quelle dichiarazioni pensose del tipo “non esistono partite facili, la Pro Nulla non è affatto una squadra da sottovalutare, per me non ci sono differenze tra Maradona e Scarpason, quel che conta è l’unità del gruppo”. L’anticipo del sabato, il posticipo della domenica, la partita a mezzogiorno, il dibattito a mezza sera e l’approfondimento il lunedì, quando meno te l’aspetti.
Niente. Nulla più di tutto questo. Magari, a memento, sarebbe carino il lunedì trasmettere a reti unificate le migliori puntate del Processo del Lunedì, dagli albori ai giorni nostri. Dovuto omaggio a chi, come Aldo Biscardi, ha saputo guadare il fiume dell’effimero come nessun altro.
Anche perché, siamo sinceri, noi calciofili ormai siamo un po’ patetici. Appresso a uno spettacolo lontanissimo parente dello sport che fu. La nostra serie A è uno spettacolo ai limiti del penoso, per giunta inquadrato da tutte le posizioni, dall’alto, dal basso, in diagonale: un kamasutra molto poco eccitante. Dove per acquistare un biglietto per lo stadio devi superare una trafila burocratica che nemmeno il permesso di soggiorno. Dove l’allenatore vincente sarebbe Massimiliano Allegri e i suoi rivali Gasperini e Mazzarri. L’outsider è lo juventino Antonio Conte. E il più trendy Luis Enrique, l’allenatore con l’Ipad che arriva dalla Spagna per comunica via mail a Totti che lui col pallone non ci sa giocare. Brutto episodio (e non siamo romanisti).
Siamo seri. Ammettiamolo. È finita. Si è chiusa un’epoca. Non vorremmo qui citare Rocco e Herrera, altrimenti certificheremmo il nostro essere passatisti. Ma non c’è più nemmeno il povero Liedholm. Arrigo Sacchi ora si è ridotto a commentare. Capello è in Inghilterra, Lippi fuma il sigaro a Viareggio, il Trap è emigrato sotto il cielo d’Irlanda. Lo spettacolo (ai limiti dell’osceno) lo fanno De Laurentiis e Lotito. Francamente troppo.
Ecco, a questo punto vorremmo chiedere a Damiano Tommasi, la Camusso dei calciatori, di non cedere. Di tenere il punto. Sull’articolo 7, sull’articolo 4, su tutti gli articoli possibili e immaginabili. Non ce ne vogliano i lettori, non ci schieriamo. Né con Crosetti, che su la Repubblica sta dalle parte dei giocatori contro i presidenti arroganti; né con Gramellini, che su La Stampa va più sul populista, ma in fondo spiega quel che Totò rivelò ai presenti nel comizio del film “Onorevoli”: di voi gliene frega niente a nessuno. Che siate elettori o tifosi. Abbonatevi e pagate la pay tv. E basta.
No, noi andiamo oltre. Fermiamo tutto. Scendiamo. Rilassiamoci. E ci guardiamo la Premier League, quel bel calcio inglese dove al novantesimo ci si stringe la mano e se ne riparla la settimana prossima. Insomma, calcio non chiacchiere da bar.