KIEV – L’inizio della fine. Il golpe del 1991 a Mosca (18-21 agosto), il colpo di coda degli hardliners del Cremlino per fermare Mikhail Gorbaciov, è il segnale che il sistema sovietico è al definitivo collasso. Nei giorni seguenti le varie repubbliche dichiareranno l’indipendenza e alla fine dell’anno, in una dacia nei pressi di Brest, i tre presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina sanciranno un po’ alticci la dissoluzione dell’Urss. Il 25 dicembre Gorby darà le dimissioni, la bandiera rossa con falce e martello sarà ammainata definitivamente dal Cremlino, sostituita dal tricolore russo. E buona notte signor Lenin.
Un passo indietro. Nel bel mezzo dell’estate Mikhail Gorbaciov sta trascorrendo le ferie a Foros, in Crimea. Da sei anni è il primo segretario del partito comunista, ha avviato un programma di riforme tra glasnost e perestrojka che invece di stabilizzare il sistema come sperato lo sta conducendo sulla strada dell’autodistruzione. Dalla stagnazione brenzeviana l’economia sia avvia al tracollo, il processo di democraticizzazione si scontra con le resistenze della nomenclatura e dell’apparato militare.
Sono proprio i falchi a organizzare il putsch per tentare di mettere fine all’esperimento di trasparenza e ristrutturazione. Un commando di forze speciali blocca Gorbaciov sul Mar Mero mentre a Mosca i golpisti tentano di prendere il controllo del Paese. I registi della manovra sono tra gli altri il capo del Kgb Vladimir Kryuchkov, il ministro della Difesa Valentin Pavlov, quello degli Interni Boris Pugo e della Difesa Dmitri Yazov. Viene annunciato che Gorbaciov si è gravemente ammalato e i suoi poteri sono passati temporaneamente a Gennadi Yanayev, il vicepresidente dell’Urss.
Ma qualcosa non funziona. I militari non sono schierati tutti con i golpisti. Tutt’altro. Nella capitale e a San Pietroburgo molti cittadini scendono per strada. Proteste e barricate contro i carri armati che non si azzardano a sparare alla cieca sulla popolazione. Davanti alla Casa Bianca, la sede del Consiglio dei ministri dell’Urss, è Boris Eltsin, il presidente della repubblica russa eletto il 12 giugno, a prendere posizione contro i putschisti. Le sue parole gridate da un megafono dopo essere salito sopra un tank hanno più effetto della litania televisiva di Yanayev. È il 19 agosto e l’immagine è quella che farà il giro di tutto il mondo e decreterà in sostanza non solo la fine del golpe, ma anche quella di Gorbaciov. Nel giro di quarantott’ore la situazione si placa, il primo segretario viene fatto rientrare al Cremlino, ma da allora chi comanda nell’Unione non è più Gorby, ma Corvo Bianco. Si chiude di fatto un’era e se ne apre un’altra.
La parabola discendente di Gorbaciov tocca il fondo nei mesi successivi al golpe fallito, quando Eltsin diventa la figura dominante sulla scena: comunica la fine del Partito comunista e scioglie il Kgb, fino all’epilogo degli accordi alla vodka dell’8 dicembre nella foresta di Belavezha con il bielorusso Stanislav Sushkhevich e l’ucraino Leonid Kravchuk. Il golpe agostano ha accelerato l’uscita di scena di Gorbaciov, più amato in Occidente che in patria, dove è sempre stato considerato una figura in negativo. Ancora oggi.
Dalla sua Fondazione sul Leningradsky Prospect a Mosca, all’ombra del mostruoso Triumph Palast, gigantesco grattacielo in stile staliniano, qualche mese fa Pavel Stroilov, un ricercatore un po’ troppo curioso, ha sottratto migliaia di documenti privati ancora inediti sul periodo sovietico e li ha passati al settimanale tedesco Der Spiegel. Uno spaccato di storia, di speranze, timori ed errori. Come quello di non essere andato subito, una volta atterrato a Mosca la notte del 22 agosto, a festeggiare la fine del golpe con la gente che lo stava aspettando alla casa Bianca, ma di essersi fatto portare subito a casa. Solo, con la sua Raissa.