È cosa ormai risaputa che sotto la maschera del paladino dei tar-tassati, Giulio Robin Hood Tremonti, si celi in realtà lo Sceriffo di Nottingham. A cominciare dai provvedimenti fiscali varati nel 2008 in favore di quei banchieri che a parole voleva mandare «a casa o in galera» fino alla manovra di questi giorni, la coerenza con cui il ministro dell’Economia evita di dare disturbo ai veri ricchi non dovrebbe lasciare spazio ai dubbi. Di più: fornisce un criterio interpretativo affidabile per decifrare le pensate tremontiane. Che, quando non si mostrano chiaramente per quello che sono (nuove tasse), hanno questo in comune: a valle comportano una sottrazione dalle tasche degli italiani.
Perciò, quando il leghista Umberto Bossi, afferma che avremo «una bella sorpresa fra poco, una grande sorpresa, il Tfr in busta paga… l’ha pensato Tremonti», la domanda irrompe spontanea: dov’è nascosta la nuova tassa? E a vantaggio di chi è davvero questa ulteriore pensata dello Sceriffo?
Non occorre essere dei tributaristi di lungo corso per sapere che, anche laddove fosse priva di controindicazioni, la trovata di Tremonti in realtà non regala nulla agli italiani. Il trattamento di fine rapporto (Tfr), comunemente chiamato “liquidazione”, è una forma di retribuzione differita che spetta ai lavoratori dipendenti (all’incirca una mensilità, per ogni anno): fino a quando il lavoratore non si dimette, o non viene licenziato o non va in pensione, queste somme restano custodite in azienda.
Anno dopo anno, dunque, l’azienda sostiene un costo ma non un esborso monetario: da un lato contabilizza una posta che riduce l’utile, dall’altro accumula un debito verso il lavoratore, che per l’impresa rappresenta una forma di autofinanziamento importante. Dal punto di vista del lavoratore, il meccanismo genera un credito crescente nel tempo, che per legge si rivaluta annualmente in base a una formula prestabilita (1,5% annuo + il 75% del tasso di inflazione misurato dall’Istat per la famiglie di operai e impiegati). Questa forma di retribuzione differita si traduce dunque un risparmio forzato, che entra nella disponibilità del dipendente solo quando il rapporto di lavoro finisce, fatta salva la facoltà di ottenere un anticipo in alcune circostanze precise (spese sanitarie straordinarie, acquisto prima casa, etc.). E anche se dal gennaio 2007, vi è la possibilità di destinare il Tfr ai fondi pensione, gran parte dei lavoratori ha scelto di lasciarlo in azienda.
Il Tfr annuo maturato dai lavoratori dipendenti italiani, secondo i calcoli della Cgia di Mestre sull’anno 2009, è di oltre 20 miliardi di euro. ll dato, avvertono però i curatori della ricerca, è spurio, in quanto include la rivalutazione dello stock accumulato presso le imprese, ma anche i trasferimenti ai fondi pensione e all’Inps (per le imprese sopra 50 dipendenti). Nei conti economici nazionali elaborati dall’Istat risulta invece che nel 2010 sono stati accantonati a Tfr 13.031 milioni di euro.
La pensata tremontiana potrebbe portare in busta paga un 6-7% in più, ovvero una mensilità aggiuntiva rispetto alla tredicesima. Nelle speranze di Tremonti l’accresciuta disponibilità di denaro dovrebbe tradursi in consumi. Il condizionale, però, è d’obbligo: gli italiani potrebbero decidere di utilizzare i maggiori introiti per ridurre i propri debiti o per aumentare il risparmio precauzionale. Se però le famiglie decidessero di spendere il Tfr, andrebbe considerato l’effetto sul risparmio nazionale, e quindi, potenzialmente, sugli investimenti e sulla crescita. Sul messaggio di Tremonti, comunque, non ci possono essere dubbi: spendete tutto e subito ché del futuro non v’è certezza.
Sorge poi un problema non da poco per le aziende, alle quali verrebbe a mancare una importante fonte di autofinanziamento. In altri termini, la “bella sorpresa” di Tremonti costringerebbe le imprese a rivolgersi alle banche: a quali tassi? Fin qui, infatti, il Tfr ha garantito alle imprese una modalità di finanziamento a basso costo, inferiore al costo medio del debito bancario e del capitale proprio. Ecco, dunque, come ancora una volta, con la scusa di dare liquidità alle famiglie, le “pensate” di Tremonti finiscano per portare business alle banche. Ammesso che, con la nuova crisi di liquidità che aleggia sul settore bancario, le banche vogliano aumentare l’erogazione di credito.
Ma la cautela verso “il Tfr in busta paga” non finisce qui. C’è un punto decisivo che va chiarito. Il trattamento di fine rapporto gode oggi di una imposizione agevolata (è soggetto a tassazione separata, non si cumula quindi con il reddito). Che cosa succederebbe se finisse in busta paga? Sarà cumulato con lo stipendio, e quindi colpito da aliquote Irpef più alte, o manterrà la tassazione di favore? Non è per fare un processo alle intenzioni, ma non vorremmo che alla fine, in cambio del “permesso” di spendere subito i nostri risparmi accumulati via Tfr, lo Sceriffo di Nottingham pretendesse il pizzo.