IL CAIRO – Se l’alterazione dei ritmi quotidiani determinata dal primo Ramadan postrivoluzionario non ha impedito a diversi cairoti di partecipare venerdì scorso alla protesta inscenata di fronte all’ambasciata israeliana, la prevista manifestazione di massa che si sarebbe dovuta tenere a Midan Tahrir è stata invece rimandata a data da destinarsi. Dal primo agosto, da quando cioè l’esercito ha sgomberato un presidio permanente di manifestanti giunto ormai alla terza settimana, il grande spartitraffico circolare collocato al centro della piazza che nei giorni della rivoluzione era diventata la casa di migliaia di egiziani è in effetti puntellato stabilmente dalle uniformi color sabbia dei soldati e, sia pure più timidamente e in seconda fila, da quelle nere della polizia.
Diverse volte, in questi primi venti giorni di digiuno e preghiera, la coalizione di partiti e movimenti “Per amore dell’Egitto: uno stato laico” ha chiamato ad una prova di forza che fosse in grado di controbilanciare la giornata dell’orgoglio islamista del 29 luglio, ma sempre con scarsi risultati. Venerdì 12 agosto, un grande iftar (pasto che segna la rottura quotidiana del digiuno al calar del sole) collettivo cui avevano preso parte, oltre ai giovani del movimento 6 Aprile, anche alcune forze politiche liberali e di sinistra e diverse confraternite Sufi, non era riuscito a mobilitare numeri paragonabili a quelli messi in campo dagli islamisti, ed aveva visto alcuni sporadici scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. La prova di forza era stata quindi rimandata di una settimana, ma venerdì sera, percorrendo in macchina l’ampia rotatoria che gira intorno all’isola pedonale poco dopo il tramonto, non era possibile vedere né folle vocianti né bandiere sventolanti, ma solo i volti dei giovani militari chiamati a presidiare l’area, a dire il vero un po’ spaesati, quasi si sentissero abbandonati dai manifestanti con i quali sono ormai abituati a condividere la grande piazza centrale della capitale.
L’impasse che affligge la coalizione laica, in parte da ricollegarsi anche al clima festivo e sabbatico che contraddistingue ogni anno il “mese caldo”, trova una parziale spiegazione nell’atteggiamento tenuto dal governo e, più in generale, dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf). I vertici dell’esercito, che guidano il paese a partire dalla caduta di Mubarak lo scorso 11 febbraio, con l’inizio del Ramadan hanno tentato più volte di dissuadere i promotori della manifestazione dallo scendere effettivamente in piazza, sia chiarendo che nuove occupazioni di Tahrir non sarebbero più state tollerate, sia affermando di comprendere le ragioni della protesta e facendo mostra di volerne accogliere almeno in parte le richieste. Applicando insomma la classica tattica del bastone e della carota.
Negli ultimi giorni, un acceso dibattito è stato suscitato dalle dichiarazioni del premier, Essam Sharaf, circa la prossima promulgazione da parte dello Scaf di un documento contenente alcuni «principi sovracostituzionali inviolabili» che dovrebbero risultare vincolanti non solo per tutte le forze politiche attualmente operanti nel paese, ma anche per la futura commissione incaricata di redigere la nuova costituzione (di cui il documento dovrebbe anche stabilire i criteri di nomina). L’annuncio, se da un lato ha avuto l’effetto di dividere e di ricondurre a più miti consigli i promotori di “Per amore dell’Egitto” (dal momento che sembra accettarne il punto di vista, vanificandone pertanto il ricorso alla piazza), dall’altro ha fatto andare su tutte le furie i Fratelli Musulmani, ora organizzati nel partito Libertà e Giustizia, e gli altri partiti islamisti (fra cui quelli salafiti). Secondo questi ultimi, la decisione dello Scaf è illegittima in quanto antidemocratica, dal momento che un nuovo quadro costituzionale vincolante per tutti i cittadini e per tutte le forze politiche non potrebbe nascere se non a partire da una qualche forma di investitura popolare.
In effetti, l’annuncio dello Scaf, dal punto di vista delle procedure democratiche che dovrebbero presiedere alla formazione del nuovo Egitto, non può non apparire come una forzatura, molto probabilmente dettata dal timore, che sembra essersi impossessato dei vertici militari negli ultimi mesi, di perdere il controllo della situazione a vantaggio degli islamisti. Con il referendum costituzionale dello scorso 19 marzo, il 77% degli egiziani aveva di fatto sancito l’approvazione di 9 emendamenti ad altrettanti articoli della vecchia costituzione, successivamente inclusi in una «dichiarazione costituzionale» composta da 62 articoli e valida come legge fondamentale per i mesi di transizione. Il vecchio articolo 189, una volta emendato, assegna il compito di scrivere la nuova costituzione ad una commissione che dovrà essere designata dal primo parlamento democraticamente eletto. Le elezioni parlamentari, che dovevano tenersi a luglio, sono in seguito state posticipate a settembre e molto probabilmente non si terranno prima di novembre/dicembre.
I Fratelli Musulmani, che sono dati per favoriti nelle intenzioni di voto, anche perché sono gli unici a disporre di un vero e proprio partito organizzato e radicato su tutto il territorio nazionale, al momento del referendum costituzionale avevano invitato i cittadini a votare Sì, a rimandare cioè l’elaborazione della nuova costituzione a dopo le elezioni. Il fronte del No, dal canto suo, aveva sostenuto la necessità di stabilire dei principi costituzionali vincolanti che garantissero il carattere laico e pluralista dello stato egiziano già prima delle elezioni, in modo da sbarrare la strada, qualora gli islamisti fossero andati al potere, a qualsiasi deriva di tipo teocratico. Le urne avevano però dato ragione ai primi, tanto che il cartello delle forze laiche – molto eterogeneo e in grado di spaziare da forze di destra e pro-libero mercato come il Partito degli Egiziani Liberi del miliardario Naguib Sawiris fino ad alcuni partiti socialisti e di sinistra –, circa due mesi dopo il referendum aveva lanciato al campagna “Prima la Costituzione!”.
La spaccatura fra laici e islamisti era temporaneamente passata in secondo piano nel mese di luglio, segnato dalle proteste finalizzate ad ottenere l’effettivo svolgimento del processo a Mubarak e ai suoi accoliti e da una nuova occupazione di piazza Tahrir. Il comunicato con cui lo Scaf accettava, il 12 luglio, molte delle richieste dei manifestanti introduceva anche, al punto 6, senza che la piazza ne avesse fatto richiesta, la promessa di promulgare, prima delle elezioni, una «dichiarazione costituzionale» vincolante per tutte le forze politiche. In tal modo gli animi erano tornati ad accendersi attorno alla questione della laicità, ed è in questo quadro che, il 29 luglio, gli islamisti hanno deciso di mostrare i muscoli all’interno di una piazza Tahrir in cui in realtà erano presenti anche i partiti e i movimenti del fronte laico, presto costretti ad abbandonare la manifestazione.
La «dichiarazione costituzionale» agitata dallo Scaf e dal governo negli ultimi giorni si pone appunto in continuità con le promesse del 12 luglio, ma rischia di far precipitare il paese in uno scontro all’ultimo sangue dall’esito imprevedibile. Mohamed Saad El-Katatani, segretario generale di Libertà e Giustizia, ha avvertito lo Scaf che, qualora la dichiarazione costituzionale venisse effettivamente promulgata dal governo, il ricorso alla piazza, in forme anche più massicce di quella del 29 luglio, sarebbe inevitabile da parte della Fratellanza. «Il popolo proteggerà i risultati della propria rivoluzione», ha dichiarato «e difenderà il proprio diritto ad una costituzione che esprima le sue opinioni e che costituisca l’unico testo fondamentale, elaborato senza il ricorso a previe restrizioni». Kamal Habib, portavoce del Partito Pace e Sviluppo, un’altra formazione politica di matrice islamista, ha rincarato la dose affermando che «gli islamisti non rimarranno zitti di fronte ai tentativi di coloro che sono al potere di far prevalere idee che sono contro il popolo». Habib ha poi proseguito chiamando in causa il passato regime, in cui le posizioni di potere venivano sfruttate per trarne vantaggi personali, e sostenendo che il governo e lo Scaf non si stanno comportando diversamente da Mubarak e dal suo clan: «Le leve el potere e dello Stato vengono di nuovo utilizzate per promuovere idee e opinioni che sono contro il popolo e contro l’Islam».
Il 15 agosto, il quotidiano Al-Masry Al-Youm ha pubblicato la bozza del documento che sarebbe già stata presentata in forma ufficiosa dal vice primo ministro Ali El-Silmi tanto al braccio politico dei Fratelli Musulmani quanto al Wafd (il partito liberale nazionalista alleato di Libertà e Giustizia). I 21 punti del documento stabiliscono che «la Repubblica Araba dell’Egitto è uno stato civile, democratico, basato sulla cittadinanza e sull’autorità della legge». Viene inoltre precisato che la nuova repubblica «rispetta il pluralismo». L’articolo 2 si limita a ricopiare il riferimento, già presente nella vecchia costituzione, all’Islam come religione di Stato e principale fonte delle legislazione, aggiungendo però una frase che riconosce esplicitamente ai non musulmani il diritto di attenersi ai propri principi religiosi nella sfera personale e morale. La bozza ricalca da vicino il documento proposto lo scorso maggio dalla “First Conference of Egypt”, una sorta di “gruppo di continuità” dei settori laici della rivoluzione sponsorizzato dall’imprenditore Mamdouh Hamza. Il testo elaborato dalla Conference includeva tuttavia un articolo che, a quanto è dato sapere, non compare nella bozza elaborata in questi giorni dal governo. In esso le Forze Armate venivano impegnate direttamente a difendere la “natura laica” dello stato. Un chiaro riferimento al modello turco, oggi in piena crisi, e un’ancora di salvataggio per l’esercito, da sessant’anni abituato ad essere il vero padrone della politica egiziana.