La Cina teme la gelata tedesca sulle proprie esportazioni

La Cina teme la gelata tedesca sulle proprie esportazioni

La nuova battuta d’arresto dei mercati ha di certo a che vedere con i risultati del vertice Sarkozy-Merkel. Ma la vera doccia fredda, l’altro ieri, è stata il dato macro tedesco sul Pil. La Germania, quella che per gli esperti è la locomotiva del vecchio continente, nel secondo trimestre è cresciuta dello 0,1% meno dell’Italia. Immediati sono stati i riflessi sul mercato azionario cinese, che guarda con preoccupazione all’Europa.

La Cina infatti non può pensare di sfuggire alle conseguenze della crisi del debito europea: l’Ue è il più grande mercato d’esportazione per il continente cinese. Due gli interrogativi che si pongono gli esperti: se la crisi europea e americana avrà conseguenze in Cina e quanto il brutto dato macro tedesco dipenda da un rallentamento cinese. Sulla prima domanda non ci sono dubbi.

La crisi dell’economia europea avrà un impatto significato sull’export di Pechino e alcuni segnali mostrano come questo stia già avvenendo. Dalla Cina, del resto, hanno subito reso chiaro di volere spiegazioni e rassicurazioni su quanto sta accadendo. Quando la crisi finanziaria nel 2008 ha colpito per la prima volta Stati Uniti e Europa, le esportazioni cinesi verso il continente europeo non avevano subito particolari variazioni. Solo nel 2009 c’era stato un crollo, seguito da una forte ripresa nel 2010, che aveva portato le esportazioni ai livelli precedenti la crisi. Ma era solo un’illusione. Il fatto che l’Europa non abbia a suo tempo risolto i problemi ha semplicemente posticipato la débâcle di quest’anno.

Le importazioni dalla Cina verso l’Ue sono state sostenute nei primi mesi del 2011, ma recentemente hanno mostrato un rallentamento. Stando alle statistiche Ue, l’import è cresciuto solo dell’8,4% nel mese di maggio, con differenze tra i vari stati. Se in Italia, per esempio, il livello di crescita delle importazioni dalla Cina si è mantenuto stabile, in Germania c’è stata una rapida decelerazione. C’è da considerare anche un fattore stagionale – il picco dell’export cinese viene raggiunto da ottobre in poi – ma i recenti segnali non sono positivi.

Più difficile dire se la crescita stagnante in Germania dipenda dalla Cina. Dati alla mano, i tedeschi fanno ormai il 50% del proprio Pil all’estero: è quindi probabile che un calo delle esportazioni nei paesi emergenti, in particolare Cina e Asia, potrebbe essere alla base della frenata. Certo, se tutto dovesse dipendere da questo e in particolare dal rallentamento della crescita cinese sarebbe un segnale d’allarme. «Allora sì che dovremmo preoccuparci tutti – afferma Paolo Onofri di Prometeia – Si tratta di capire se dietro il dato congiunturale tedesco c’è o no la risposta cinese all’espansione monetaria americana e il tentativo della Cina di raffreddare la propria crescita per arginare i pericoli di importare l’inflazione dagli Usa».

L’economia cinese sta dunque rallentando? Alcuni recenti dati macro non sono incoraggianti. Gli investimenti stranieri, sebbene rimangano sostenuti, hanno mostrato un calo il mese scorso a 8,3 miliardi di dollari. L’indice Pmi manifatturiero, che per rimanere in fase espansiva deve stare sopra 50 punti, in giugno ha rallentato ben più delle attese, dai 53,9 ai 52,1. Certo, non è una situazione drammatica per ora. Erano 14 mesi di fila che l’indice Pmi era in espansione, e parliamo pur sempre di un’economia destinata a crescere di oltre 8 punti percentuali quest’anno, nonostante i tentativi di raffreddamento da parte del governo. È comunque un segnale da monitorare con attenzione. Inoltre quest’anno, per la prima volta da tempo, la bilancia commerciale cinese ha fatto registrare un segno negativo a inizio d’anno, per poi riprendersi: un miliardo di dollari circa, dovuto in buona parte all’aumento del costo delle materie prime strategiche come il petrolio.

«La Cina sta implementando la sua politica fiscale in senso restrittivo e il risibile deficit lascia spazio per ulteriori manovre – sostiene Zhen Gao, managing partner del Mandarin Capital Fund – Si trova però in una situazione difficile sul fronte dell’inflazione e il processo di transizione da economia orientata all’export a una orientata alla domanda interna sarà lungo e doloroso». Intanto Moody’s ha diffuso uno studio nel quale ha segnalato che anche le prospettive per le banche cinesi potrebbero diventare negative.

Infine il fattore valutario. L’economia cinese è strettamente legata alla sua valuta, lo yuan o Renmin Bi (“moneta del popolo”). «Noi siamo il più grande creditore estero degli Stati Uniti e il più importante possessore di dollari americani – ha scritto il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito comunista cinese – e siamo preoccupati per la politica degli Usa». Joe Biden, vice di Obama, in questi giorni si trova in Cina e tornerà a chiedere la rivalutazione dello yuan. Secondo gli esperti, però, è la Cina ad avere il coltello dalla parte del manico. Solo qualche anno fa sentire i rimproveri di Paulson o Geithner sulla rivalutazione della moneta era all’ordine del giorno. Ora non più. È Pechino a dettare le regole, con i suoi 1.160 miliardi di dollari di titoli del Tesoro Usa.

La Cina teme soprattutto l’indebolimento della domanda esterna e la banca centrale cinese non accenna nemmeno a un aumento del tasso di cambio, mossa giocata tre volte quest’anno. Il timore infatti è di raffreddare troppo l’economia. Da sottolineare, comunque, come la Cina non sia più una mera piattaforma d’esportazione: quest’anno l’euro ha ceduto il 14,3% contro lo yuan e il dollaro il 14 per cento . «La Cina ha bisogno di un mercato – spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia – e ha bisogno di un mercato europeo e di un euro forte, non di un euro debole. Non vuole un’altra crisi e tende a non favorire le speculazioni, piuttosto la stabilità».
 

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