È passata solo una settimana dal primo incontro tra governo e parti sociali, ma sembra trascorso un secolo. In mezzo decine di miliardi bruciati dalle Borse, Standard&Poor’s che si permette di dire al mondo intero che l’America non è poi così affidabile, l’Europa, Bce in testa, che commissaria l’Italia, e l’Italia commissariata che anticipa di due anni il pareggio di bilancio. Se sette giorni fa potevano bastare le dichiarazioni di intento, otto punti per rilanciare il Paese che l’esecutivo avrebbe messo allo studio da settembre, adesso no. Nel secondo round (appuntamento domani, mercoledì, a Palazzo Chigi alle 17) con Confindustria, sindacati, artigiani, commercianti, i rappresentanti della maggioranza saranno costretti a passare dalle parole ai fatti. Dire cosa faranno e quando lo faranno. E qui iniziano i guai, perché si tratta di recuperare cinquanta miliardi in due anni che ancora una volta rischiano di pesare sui soliti noti: pensionati, lavoratori dipendenti e famiglie della classe media.
L’articolo 18. Nessuno lo cita, quasi tutti se ne tengono distanti, ma lo spettro dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (che regola il licenziamento per giusta causa) aleggia sinistro nella discussione sulla riforma del mercato del lavoro. E basta leggere la relazione che lo scorso 11 novembre il ministro Sacconi ha inviato alle parti sociali per capire perché. Si parlava del disegno di legge delega che mira a cambiare lo stesso Statuto (sarà la base della trattativa di domani) e nella bozza emergevano due cose. La prima: ci sono troppi atti normativi, circa mille con l’aggiunta di 15 mila precetti e disposizioni, che incidono sui rapporti di lavoro. Vanno dimezzati: “l’articolo 1 del presente disegno di legge – si legge nel testo – affida al governo la delega a emanare uno o più decreti legislativi volti alla redazione di un testo unico…”. La seconda: fatta la semplificazione, l’obiettivo è individuare “un nucleo di diritti universali e indisponibili” applicabili a tutti i rapporti di lavoro, mentre le altre tutele potranno essere ridefinite a livello territoriale, settoriale o aziendale. La domanda sorge spontanea: quali saranno i diritti universali e indisponibili? Vi rientrerà anche il licenziamento per giusta causa come regolato dall’articolo 18? In caso contrario la Cgil – lo ha già annunciato in tutte le salse – è pronta a fare le barricate. Insomma: probabilmente non scenderanno in piazza tre milioni di persone, come successe il 23 marzo del 2002 con Cofferati a capo del sindacato rosso che da solo sfidava Berlusconi, Maroni e l’allora presidente di Confindustria Antonio D’Amato, ma l’argomento è di quelli delicati e rimetterlo al centro della scena politica proprio in questo momento non sembra saggio.
Ma non solo. Perché tra le misure allo studio del ministero del Welfare c’è anche l’adozione del cosiddetto modello Fiat per via legislativa. In soldoni: mettere nero su bianco la possibilità che i contratti aziendali possano derogare quelli nazionali. Che vuol dire maggiore flessibilità, meno scioperi ed eventuali ricorsi ai giudici più difficili. Marchionne ne sarebbe entusiasta. La Cgil assai meno, tant’è che in una nota il sindacato di Corso d’Italia chiama in causa direttamente il ministro Sacconi: «Con un accanimento degno di miglior causa – si legge nel comunicato – Sacconi ha deciso di correre al capezzale della Fiat cercando di risolvere per legge quello che Fiat non è riuscita a fare con il suo decisionismo manageriale. Fiat ha prodotto uno scontro sindacale epocale e ora chiede al ministro ossequiente l’iniziativa legislativa. Per la Cgil non è una strada percorribile». Toni duri. Ma anche il leader della più moderata Cisl, Raffaele Bonanni, sembra annunciare, con forme diverse, le stesse cose: «Abbiamo fatto l’accordo (quello sulla rappresentanza e sui contratti dello scorso 28 giugno, ndr) che dà regole più solide e più rispettate. Leggi non ne servono, se c’è da fare cose ragionevoli le parti sociali possono fare da sole», spiega in un’intervista alla Stampa di martedì mattina.
Pensioni. Lavoro o non lavoro, il problema di fondo resta sempre lo stesso. Reperire prima (soprattutto nel 2012) quelle risorse che il governo aveva spalmato in quattro anni per raggiungere il pareggio di bilancio. E dove si agisce? Manco a dirlo, l’ipotesi più gettonata resta quella delle pensioni. Ce lo chiede, da tempo, l’Europa e l’innalzamento dell’età previdenziale è da sempre uno degli obiettivi dei governi di centrodestra. E allora via con la ridda delle ipotesi: si va dall’abolizione delle pensioni di anzianità (si recuperano circa tre miliardi l’anno) passando per l’aumento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato (più o meno la stessa cifra destinata però a crescere), arrivando fino alla stretta su quelle di reversibilità (a favore dei coniugi e dei figli superstiti) e di invalidità (risparmi per quattro miliardi) e all’anticipo, dal 2013 al 2012, dell’agganciamento dell’età di pensione alle speranze di vita. Calcolatrice alla mano: sul tavolo ci sono più di dieci miliardi pronti all’uso che metterebbero il governo nelle condizioni di superare l’anno più di difficile, il 2012.
Ma anche qui, c’è da scommetterci i sindacati, Cgil in testa, sono pronti a dire no. Con una differenza sostanziale. Il no di Camusso e compagni sembra poco trattabile, quello degli altri più malleabile. E il senso è questo: un’altra stretta alla previdenza ci può anche stare, ma prima chiediamo sacrifici a chi in questi anni non ne ha fatti. E quindi: aboliamo le Province, dimezziamo i parlamentari, liberalizziamo le municipalizzate che sono diventate l’ammortizzatore sociale dei politici, colpiamo le rendite finanziarie. Solo dopo sarà possibile rimettere sul piatto la partita delle pensioni. Sembra facile, ma probabilmente il nodo dell’incontro di domani sta tutto qui.