Per gli indignados di Israele il modello è il Cairo

Per gli indignados di Israele il modello è il Cairo

TEL AVIV- Tutto ha avuto inizio il 14 luglio, quando Daphne Leef, 25 anni, video editor di professione, si è installata con la sua tenda nella più prestigiosa via di Tel Aviv, Rotschild Boulevard, esprimendo un atto di protesta contro la crescita continua dei prezzi delle case e dei beni di primo consumo. È bastato poco tempo perché il gesto simbolico di Daphne acquisisse un’eco tale da divenire una tra le più condivise proteste su scala nazionale della storia di Israele. Il lungo Rotschild Boulevard si è rapidamente trasformato in una vasta tendopoli popolata di giovani, adulti, laici, religiosi, studenti e avvocati che insieme sembrano voler celebrare il nome originario della stessa via, “Via del Popolo” (Rehov Ha’am).

Ma il malcontento oltrepassa di gran lunga la manifestazione di Tel Aviv: da Gerusalemme a Beer-Sheba, da Nazareth a Haifa, il fenomeno si è diffuso a macchia d’olio nelle maggiori città, risvegliando quell’attivismo che da tempo il popolo israeliano sembrava aver sepolto nell’ apatia.

I motivi della protesta sono diversi: c’è chi lamenta i prezzi degli affitti, genitori in lotta con le difficoltà economiche che incontrano nel crescere i propri figli, studenti che chiedono pari opportunità a livello educativo e medici in sciopero della fame per denunciare le impossibili condizioni in cui sono costretti a lavorare. Vi è però un minimo comun denominatore: un sentimento generale di frustrazione e tradimento nei confronti dei governanti. Con un fondo di tristezza negli occhi, Hadas, attrice, afferma che «nessuno sente che il Paese ci vuole come parte del suo sistema» e che «questo non è il Paese in cui per tanti anni abbiamo sognato di vivere», mentre «il governo non si cura della gente e del bene comune».

Il primo agosto in Rotschild Boulevard è stata fatta sfilare una mandria di asini, quale metafora clamorosa del fatto che la classe media lavora allo sfinimento senza ricevere un’ equa retribuzione. «Noi facciamo tanto per il Paese senza ricevere nulla in cambio» racconta Iris, studentessa in protesta a Rotschild, «come è possibile che l’economia vada a gonfie vele mentre noi non arriviamo a fine mese?»

Molti puntano l’indice sulle diseguaglianza crescente.  Se si guardano i numeri si vede che il Pil di Israele è cresciuto del 4,5% e la disoccupazione è al 6%, un quadro roseo rispetto all’Italia.  Tuttavia Israele è anche il secondo paese con il più alto tasso di povertà tra i Paesi Ocse. Inoltre,il discontento deriva dal fatto che praticamente tutte le misure del welfare state non esistono più, e il costo della vita continua a crescere. I costi degli affitti a Tel Aviv ad esempio, sono decisamente fuori dalla portata della maggioranza dei giovani israeliani.
 

Inoltre c’è chi sostiene che dall’assassinio di Rabin la situazione sia precipitata, chi dà la colpa ai religiosi «che sono come parassiti» e chi è convinto che, se si arrivasse a un accordo di pace, molto del denaro speso per la sicurezza potrebbe essere impiegato in cause sociali. Moltii concordano sul fatto che la situazione è divenuta insostenibile e che è necessaria una maggiore giustizia sociale. «Il problema non è il capitalismo in sé», spiega Yonatan, 25 anni, studente di scienze politiche, «il problema è come il capitalismo viene applicato. In Israele l’intero sistema è nelle mani di venti famiglie che più che il libero mercato promuovono una vera e propria oligarchia».

La situazione dei medici è senza dubbio la più significativa: nonostante negli ultimi vent’anni la popolazione sia praticamente raddoppiata e l’aspettativa di vita si sia allungata, il budget e il piano per il sistema sanitario sono rimasti esattamente gli stessi. Un medico stagista guadagna 20 shekel (4 euro) all’ora e in media 9 volte al mese è di turno per 26 ore consecutive. I medici sono scesi in protesta da più di tre mesi e dato che la legge impedisce loro di scioperare, hanno indetto uno sciopero della fame. Ma il Primo ministro (e Ministro della salute) Benjamin Netanyahu, non sembra essere toccato dal problema e non si è mostrato coinvolto neppure quando il Presidente dell’ordine dei medici, il Dottor Eidelman, già in sciopero della fame, si è diretto a piedi da Tel Aviv alla casa del primo ministro a Gerusalemme dove ha piantato la sua tenda in segno di protesta.

Come scrive un’attivista, pare proprio che «Bibi (Netanyahu) è troppo impegnato per noi»; tra il conflitto, la diplomazia, i territori e l’Iran il governo sembra essersi dimenticato delle priorità più sensibili: le necessità del popolo.

Le proteste e l’atteggiamento del governo sono rappresentativi della forbice che separa la classe politica dai giovani del Paese. Mancanza di fiducia e disillusione verso il sistema politico hanno raggiunto il culmine, risvegliando nei giovani il desiderio di riappropriarsi del ruolo che ritengono di meritare nella loro democrazia. 

In funzione di ciò sarebbe opportuno che il governo Netanyahu mostrasse di affrontare il problema con attenzione invece di archiviarlo, soprattutto perché «Il Paese soffre» come proclama uno dei maggiori slogan esposti nel centro di Tel Aviv e per evitare che «Rotschild diventi Tahrir» come minaccia un altro striscione all’ultimo incrocio di Rotschild Boulevard. 

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