Potere e segreto sono un binomio inscindibile, come rilevava già nel 1960 il premio Nobel per la letteratura Elias Canetti nel suo volume Massa e potere. Eppure tale binomio non può reggere – in modo impermeabile – l’impatto con l’odierna società della conoscenza. La società di internet, dell’informazione, della trasparenza. Da qui il conflitto e la ricerca di un necessario bilanciamento tra le esigenze della protezione e della difesa, anche attraverso segreti, della democrazia (oltre che del potere tout court) con invece le corrette ragioni che, proprio in base ai valori della democrazia, spingono a non apporre segreti, a dare a tutti la possibilità di accedere “a tutto”. Ne discende che oggi, se la democrazia – intesa come governo del popolo, dal popolo, per il popolo, usando le parole di Abraham Lincoln – non può aver paura della verità, al tempo stesso, però essa non può non scegliere di «giocare con il tempo» sulla diffusione della verità (o delle verità, rectius) proprio per mantenere sani e salvi quei valori costituzionali che fanno di un Paese una democrazia stabile.
Il punto dunque, diviene quello di individuare, di volta in volta, l’adeguato bilanciamento e la ponderazione tra gli interessi contrapposti in campo, senza che ciò, per sua natura, porti a un deperimento progressivo della qualità democratica di un Paese. Lo strumento per fare tutto ciò è un’attenta disciplina normativa del segreto di Stato, una normativa che deve essere capace di valorizzare, in modo opportuno e al momento opportuno, entrambi i valori costituzionali da tutelare: tanto quello della protezione quanto quello della trasparenza e dell’ineludibile informazione per tutti i cittadini. In via generale, pur considerando la complessità del tema degli Arcana Imperii (a partire dai servizi segreti e di intelligence) e delle differenti tradizioni giuridiche di ciascun Paese, la prospettiva comparata ci offre la possibilità di sottolineare almeno tre criteri standard alle discipline in tema di segreto di Stato, comuni alle maggiori democrazie, ossia: che il segreto di Stato è un atto innanzitutto politico, che diviene tuttavia ipso facto giuridico dal momento della sua apposizione e il cui l’effetto è che sia sottoposto tanto al criterio della procedimentalità nella sua adozione/gestione/trattamento quanto al criterio della trasparenza e della conoscibilità, propria degli atti amministrativi; che il segreto di Stato è un atto che, proprio perché politico a tutto tondo, viene apposto dal Capo del Governo (che si chiami Primo ministro, Cancelliere, Presidente del Consiglio, presidente della Repubblica etc…), in quanto titolare in primis dell’indirizzo politico-governativo, espressione di sintesi del continuum politico tra governo-maggioranza-elettori; che il segreto di Stato è un atto sottoposto a un controllo di tipo parlamentare (una speciale di commissione o un comitato, comunque formato in modo bipartisan o proporzionale) al quale necessariamente e periodicamente dover riferire; non di rado, a tale organismo parlamentare si rileva anche la presenza della Corte Suprema, ossia di quell’unico soggetto giurisdizionale legittimato alla difesa della Nazione nel controllo – non di merito, si badi bene, ma di metodo – del rispetto delle azioni normative del governo al parametro costituzionale.
In questo quadro la disciplina del segreto di Stato in Italia ha trovato un suo ubi consistam nel 2007 con la legge n. 124. Un testo importante che, se da un lato ha posto l’Italia in regime di sostanziale equivalenza con le maggiori democrazie del mondo, dall’altro tuttavia presenta aporie da sottolineare, in particolare nel depotenziamento del ruolo del controllo parlamentare dell’apposito organismo (Copasir) rispetto a quello comunemente qualificato, proprio delle altre democrazie stabilizzate. Eppure – è bene non dimenticarlo – è proprio nell’adeguata e forte garanzia parlamentare del controllo che trova piena democraticità l’apposizione del segreto di Stato da parte di un governo, anche perché, come ricorda la Corte costituzionale nella sentenza n. 86 del 1977, gli interessi istituzionali che giustificano l’apposizione del segreto di Stato sono quelli che «devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono». Per cui «solo nei casi nei quali si tratta di agire per la salvaguardia di questi supremi, imprescindibili interessi dello Stato (…) [che] può trovare legittimazione il segreto in quanto mezzo o strumento necessario per raggiungere il fine della sicurezza».
Perciò, tertium non datur. Non vi è democraticità nell’apporre il segreto di Stato se esso non è adeguatamente e puntualmente valutato e controllato dal titolare della sovranità in un Paese democratico, ossia il Parlamento. Certo, non ci si può nascondere che il segreto di Stato troppo spesso è andato collegato ai Servizi Segreti, cosicché la necessaria segretezza dell’uno rendeva sempre più impermeabile anche l’altro. Eppure, pur essendo entrambi dipendenti nelle scelte del day by day dal medesimo soggetto – il Presidente del Consiglio o un suo Delegato – il segreto di Stato non può essere oltremodo reso impermeabile al soggetto, il Copasir, deputato a vigilare sul sistema di informazione e sicurezza nel nostro Paese. D’altronde, acclarato che il segreto è un’esigenza politica ineludibile della democrazia, e che la democraticità non si gioca evidentemente sulla sua istantanea conoscibilità, bisogna con più coraggio prendere atto del ruolo di controllo che gioca il Parlamento di una società aperta, secondo gli stilemi delineati da Popper, quale ormai siamo (o aspiriamo a essere) per garantire la democraticità dell’atto, censurando eventuali sue arbitrarietà. In fondo una democrazia è un sistema di governo che deve essere capace di accettare un giorno – nel nostro caso, al massimo, dopo trent’anni – i rischi e i costi di guardarsi dentro in piena trasparenza.
Da un lato perché aver paura di se stessi e dei propri atti non è un segnale di grande qualità democratica (ricordiamoci – come scriveva Paolo Barile – che «un segreto legittimamente opposto può paralizzare, innanzitutto, il diritto all’informazione dell’informazione»); dall’altro per evitare di finire sbugiardati – i famosi segreti di Pulcinella… – dalla desecretazione di atti, operata da altri Paesi, che magari ci coinvolgono e che noi, invece, tanto gelosamente (ancora) custodiamo…
* Professore associato di Diritto pubblico comparato (Università degli Studi di Perugia)
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