Obama ha chiamato alla mobilitazione lanciando l’hashtag #compromise, chiedendo ai suoi follower di contattare i senatori del Tea Party contrari all’accordo. Perché secondo te ha perso follower?
«Obama ha perso follower perché Twitter rispecchia la vita reale. Molti degli elettori di Obama, soprattutto fra i giovani, gli rimproverano scelte e politiche in contraddizione con le promesse fatte nella campagna presidenziale del 2008. Tale scontento è più marcato nello zoccolo duro liberal, dove i social network sono molto diffusi. A Obama si contesta la mancata chiusura di Guantanamo, le perduranti campagne militari in Iraq e Afghanistan, e soprattutto la mancata ripresa dell’occupazione. Ma ciò che adesso si aggiunge è lo scontento per non essere riuscito a tassare i ricchi come aveva promesso di fare».
Su questa vicenda, gli americani quanto hanno usato Twitter per esprimere i propri sentimenti? Che ne pensi dell’hashtag #f……washington?
«È lo scontento per Obama che spiega tali hashtag. Molti giovani liberal anziché seguire le indicazioni del presidente hanno sfruttato Twitter per sfogare la propria amarezza, condita spesso di rabbia. Credo che anche il Tea Party sia parte di questo fenomeno di proteste digitali ma ancora non vi sono dati certi in proposito».
Tu stesso hai twittato moltissimo mentre si avvicinava l’accordo sul tetto del debito. Che funzione assolve Twitter? Un puro strumento di comunicazione immediata? Una piattaforma di scambio orizzontale con il lettori?
«Twitter per il mio lavoro ha tre funzioni molto utili, e complementari. Primo: mi consente di aver un rapporto immediato con i lettori sul fatto del giorno, dando vita ad una conversazione parallela allo svolgimento dei fatti di cronaca che spesso mi arricchisce perché i commenti di chi legge possono essere, a volte, molto utili. Secondo: mi aiuta a concentrarmi sull’essenza di quanto avviene e dunque a trovare il filo dell’evento di cronaca con la conseguenza di mettermi nelle migliori condizioni possibili per scrivere poi l’articolo per il giornale, oppure per fare collegamenti radio e tv. Terzo: mi mette in competizione con i Twitter di colleghi più preparati e competenti di me, dandomi scariche di adrenalina continue».
Usare Twitter ha cambiato quello che scrivi? L’altro giorno il direttore del Tempo Mario Sechi ti twittava e diceva che con il tuo uso di Twitter diventano inutili le agenzie di stampa. Sei d’accordo?
«Twitter ha arricchito il mio modo di lavorare. Quando iniziai a fare il giornalista, nel 1984, nelle redazioni c’era il telpress ovvero un piccolo monitor che in tempo reale dava tutte i lanci di tutte le agenzie di stampa. Guardarlo era avvincente perché dava la sensazione di essere davanti all’attualità in continua evoluzione. Ora Twitter consente ad ognuno di noi di essere al tempo stesso protagonista e fruitore di un telpress digitale che ci costruiamo su misura. Il giudizio generoso di Mario Sechi premia i miei sforzi, pur rimanendo convinto che molti colleghi delle agenzie hanno capacità di sintesi straordinarie, assai superiori alle mie».
In Italia l’uso di Twitter sembra essere molto più diffuso a sinistra che a destra. Negli Usa, dove i numeri sono radicalmente diversi, è uno strumento più bipartisan?
«Twitter resta in gran parte un patrimonio dei liberal, soprattutto se ci riferiamo ai gruppi di giovani più impegnati in politica, mentre fra i conservatori prevale come strumento di conversazione fra grandi firme e maggiori testate. Il Tea Party però potrebbe cambiare questa equazione. Dobbiamo aspettare la campagna presidenziale del 2012 per scoprirlo».
Twitter è un social media e non un social network. Sei d’accordo con chi sostiene che sarà il giornale del futuro?
«Il giornale del futuro sarà multi-funzionale, consentirà di sovrapporre immagini, video e scrittura consentendo un’interazione continua non solo fra i reporter e il pubblico ma anche all’interno delle redazioni. Stiamo andando in questa direzione. È un percorso a tappe ed una di queste è Twitter. Non possiamo dire con esattezza quale sarà il punto di arrivo ma credo non possano esserci dubbi sul fatto che si tratta di un percorso avvincente».
Oltre al tetto del debito, si parla molto anche della pressione dei mercati sull’Italia. C’è preoccupazione da parte dell’amministrazione Obama su un possibile default italiano? Potrebbe innescare una double dip, dopo la recessione appena passata?
«La preoccupazione maggiore a Washington riguarda la possibilità che la crisi del debito sovrano in Europa si sposti dai Paesi piccoli – Grecia, Irlanda e Portogallo – a quelli più grandi – Italia e Spagna – con la conseguenza di avere dimensioni maggiori e dunque rendere più difficili piani di salvataggio da parte dell’Ue. L’Italia è dunque percepita come uno dei due Paesi grandi “a rischio” che, se cadessero, potrebbero travolgere la stabilità dell’Eurozona».