Il ciclismo è capace di finire in situazioni imbarazzanti come nessuno. È una prerogativa di chi va in bicicletta: fare fatica, sudare le classiche sette camicie, beccarsi acquazzoni memorabili, colpi di sole da far tramortire anche un cammello, beccarsi gli sputi di chi ti precede in corsa e non sono sputi, perché i corridori in corsa vanno anche di corpo e chi c’è c’è. È uno sport duro, selettivo, aspro, per chi ama il sacrificio e la rinuncia, ma non è tollerabile che si rinunci a pensare.
Che sia la Lega a dire che il Giro di Padania non è una corsa politicizzata fa parte del gioco. Che la Federciclismo presieduta da Renato Di Rocco ci creda è cosa grave: o ci sono o ci fanno. Ma cosa ben più grave è il fatto di essersi sdraiati letteralmente sdraiati al cospetto di una nuova corsa, in un momento in cui è bene ricordarlo – le corse muoino. Fa bene Di Rocco a salutare il Padania «come una corsa che va a colmare un profondo vuoto nel calendario». Fa bene Paolo Bettini, oro di Atene, due volte mondiale e oggi selezionatore tecnico della squadra azzurra a sottolineare il fatto che «questa corsa serve per vedere all’opera i potenziali azzurri in vista della sfida mondiale del 25 settembre a Copenaghen». Per la serie: qui al Padania si fa l’Italia. Ma ci dovremmo fermare qui.
Invece la Federciclismo ha accettato di farsi strumentalizzare come mai era successo in passato. Nemmeno sotto il governo Prodi, che tutti ben ricordano appassionatissimo e praticante ciclista, quanto se non più dell’appassionato senatore Michelino Davico, che questo Giro della Padania ha pesato e avviato sulle strade. Di Rocco si è speso in proclami e ha sollecitato la grande famiglia del ciclismo a scendere in campo: tutti schierati, tutti felici, tutti garruli per la nascita della nuova corsa. Da Gianni Motta a Francesco Moser, da Michele Dancelli a Davide Boifava.
Sia ben chiaro, la Lega fa il suo gioco. È la Federazione ciclistica italiana che avrebbe dovuto mantenere un profilo più basso, chiedendo per esempio qualche garanzia in più. Quali? Che la corsa non avesse per esempio una così smaccata connotazione politica. «La politica non c’entra, qui si fa sport», ha ripetuto Di Rocco. Poi alla prima tappa ecco comparire Renzo Bossi, e oggi all’arrivo di Vigevano ci sarà Monica Rizzi, assessore allo sport della Regione Lombardia, la quale su La Padania dichiara: «I ciclisti sono come la Lega Nord». Un capolavoro.
Un capolavoro del nostro ambiente, e usiamo il “plurale maiestatis” perché il mondo del ciclismo lo frequentiamo da anni, e queste cose ci gettano nello sconforto più profondo. Il ciclismo mantiene un profilo basso con Prodi e porta Basso al Giro della Padania. Ma sia ben chiaro, i corridori sono quelli che meno c’entrano. In gruppo, soprattutto nel gruppo del Giro della Padania, sono tantissimi gli atleti che corrono al minimo di stipendio (25 mila euro all’anno, ndr) e alcuni di loro pagano per correre: in pratica portano lo sponsor. E visto e considerato che sono saltati il Giro del Veneto, il Giro del Lazio, la Milano-Torino, mentre il Romagna e la Coppa Placci domenica scorsa sono stati accorpati in una sola corsa, e il Memorial Franco Ballerini è già scomparso dal calendario, è logico che i corridori vogliano correre quelle poche corse che sono rimaste in calendario.
Il ciclismo italiano è conciato così: un po’ come il Paese Italia. Una corsa in più che nasce è un’opportunità per i corridori di mettersi in mostra e guadagnarsi un contratto per l’anno successivo. In definitiva capiamo la Lega, che ha ideato la più immaginaria delle corse ciclistiche e sta ottenendo quello che voleva: visibilità. Possiamo anche capire, fin quando la protesta non sfocia nella violenza, la posizione di Paolo Ferrero e di Rifondazione Comunista: anche lui ha portato a casa il risultato di una buona cassa di risonanza. Capiamo perfettamente i corridori, che pretendono di svolgere il loro lavoro. Non comprendiamo assolutamente, invece, il superficiale atteggiamento di una Federazione, finanziata con soldi pubblici elargiti dal Coni, che non ha fatto nulla per evitare questa speculazione politica.
Anni di doping, crisi finanziaria e di risultati, ora anche una connotazione politica di cui non se ne sentiva francamente il bisogno. Davico probabilmente è molto soddisfatto. Paolo Ferrero, anche. Ma Di Rocco pensa davvero d’aver fatto un favore al ciclismo?
*direttore di Tuttobici