«Ci sono due tipi di sconfitte in guerra: una emotiva e l’altra strategica. La prima è quando senti di avere perso, che tu abbia vinto o meno. La seconda quando con gli strumenti di guerra a tua disposizione fallisci gli obbiettivi e ti ritrovi in una situazione di vulnerabilità e svantaggio. Bene, la guerra incominciata dall’America dopo l’11 settembre è stata una sconfitta su entrambi questi fronti». Per Michael Vlahos, docente di strategia militare del Usa Naval War College, non ci sono dubbi. Enduring Freedom, la grande guerra al terrore scatenata dall’attentato contro le Torri Gemelle, è stata un totale fallimento.
Addirittura una «disfatta», come ribadisce nella sua analisi Abbiamo forse perso la guerra?, pubblicata dall’Huffington Post poco prima delle accorate commemorazioni a Ground Zero. Per Vlahos gli Stati Uniti oggi non si sentono solo sconfitti, ma «in declino». E in «una nazione divisa in cui i Repubblicani giudicano i loro antagonisti come traditori», non hanno niente da dire alle più di 200mila vittime della guerra, cui si aggiungono le migliaia di persone ancora affette da malattie legate all’esposizioni alle polveri delle Twin Towers e a quelle colpite dalla Sindrome da disturbo post traumatico. «Queste persone, con i loro disturbi, testimonieranno questa guerra ancora per molti anni», e la potente America non ha argomenti per giustificare il loro sacrificio.
Naturalmente, sostiene il docente del Naval War College, la parola «sconfitta» non è stata mai pronunciata. Si è cercata in tutti i modi di nasconderla come quando, durante l’attacco all’Afghanistan e all’Iraq, Clear Channel Communication tentò di limitare la telediffusione dei messaggi pacifisti, giungendo a sconsigliare la trasmissione di alcune canzoni ritenute “inappropriate”. Così oggi gli americani affermano la sconfitta negandola categoricamente, perché «continuare a negare è una prova del contrario».
L’America ha perso perché ha fallito nei suoi obbiettivi. Portare democrazia in Afghanistan e Iraq, pacificare il Medio Oriente, estirpare il terrorismo islamico. A ben guardare, dice Vlahos, dopo dieci anni di guerra nessuno di queste mete si può dire raggiunta. Al contrario, nel breve periodo, la reazione muscolare di Bush ha prodotto risultati opposti. Ha favorito l’incubazione terroristica e ha destabilizzato il mondo arabo, favorendo la “primavera” che ha spazzato gli «stabili tiranni nordafricani che erano i migliori alleati dell’America».
Anche gli eroi del popolo americano, i «figli dell’Iraq», sono state vittime sacrificali. Mentre loro combattevano per «obbiettivi impossibili da raggiungere e per di più marginali», i veri padroni di Bagdad sono sempre stati i guerriglieri di Muqtada al-Sadr, la più potente organizzazione paramilitare contro l’occupazione iraqena da parte della coalizione occidentale. «E adesso che noi ci ritiriamo, loro restano dentro», denuncia lo stratega guardando ai 32 parlamentari che la milizia del Mahdi è riuscita a portare al parlamento dopo le recenti elezioni.
La stessa Al Qaeda è ormai un tabù. Caso chiuso, secondo molti americani. Ma in realtà il movimento che fu capitanato da Bin Laden non può essere liquidato in questo modo. Farlo sarebbe un grosso errore, significherebbe «sconfessare quanto si è fatto finora», mascherando sotto bugie ancora più grossa la disfatta americana.
«Adesso come adesso la sconfitta in Vietnam appare come la nostra unica stella polare», continua Vlahos. «Allora il nostro esercito seppe accettare la sconfitta, ed andare oltre. Perdere quella guerra significò capire come il nostro esercito avrebbe dovuto affrontare il blocco Sovietico e sconfiggerlo con altre armi». Così la guerra dell’11 settembre, conclude lo stratega americano, dovrebbe sollevare alcune inappellabili domande: quali sono gli effettivi vantaggi di un intervento militare per risolvere i conflitti internazionali? Come può l’esercito aiutare i leader nazionali a capire i limiti dell’uso della forza? E, soprattutto, come si riusciranno ad impiegare le forze armate americane perché le relazioni degli Stati Uniti con il resto del mondo migliorino, anziché peggiorare? «La risposta verrà solo dall’ammissione della nostra sconfitta», risponde Vhlaos. «Una virtù inaudita che manca, ma adesso è diventata necessaria».