«In considerazione del massiccio afflusso di immigrati provenienti dal Nord Africa, al fine di non intralciare le attività loro rivolte», lei non può entrare. Con queste parole la Prefettura di Roma ci ha impedito l’ingresso nel Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria. Una circolare del ministro degli Interni dello scorso aprile permette l’ingresso solo alle associazioni accreditate. I giornalisti sono di intralcio. Nel giro di pochi giorni i militari ci impediscono l’ingresso anche a Lampedusa («Ma non abbiamo nulla da nascondere», si giustifica un operatore) e a Pozzallo, nel ragusano. Camionette e sbarramenti, tenute antisommossa e fili spinati. Dall’altra parte della recinzione abbiamo visto anche minori non accompagnati che avrebbero tutto il diritto di uscire. Se noi non possiamo entrare, sono le voci e i racconti a uscire. Con i cellulari, le memorie digitali e i foglietti scritti a mano. Tante testimonianze, tutte agghiaccianti.
Un tunisino e una olandese. Nizar e Winny si erano conosciuti in Grecia mentre lei era in vacanza e lui lavorava in un villaggio turistico. Dopo il matrimonio, si sono trasferiti a vivere in Tunisia. Lei – 23 anni – rimane incinta e intanto scoppia la rivoluzione dei gelsomini. Col passaporto olandese si può partire, con quello tunisino no. La burocrazia li separa, lei torna in Olanda. Per Nizar – dopo il rifiuto del consolato – l’unica via è il solito barcone per Lampedusa, quindi il trasferimento nella tendopoli messa su a Trapani Kinisia. Medici Senza Frontiere ne aveva chiesto l’immediata chiusura: «Manca l’elettricità, le condizioni igieniche sono pessime e l’accesso all’acqua saltuario». Lei va da Eindohven fino in Sicilia, ma non possono ripartire insieme. Anzi, non possono neppure vedersi. L’unico modo per stare insieme è una fuga di poche ore, prima che lui venga catturato e lei sia minacciata di una denuncia per favoreggiamento. «L’Italia tiene suo marito tunisino in una tendopoli» è il surreale titolo che un giornale olandese dedica a Winny.
Quando il caso è ormai conosciuto internazionalmente, il tribunale di Agrigento ammette che l’espulsione è illegittima: Nizar può circolare liberamente perché è sposato con una cittadina comunitaria. Le coppie miste sono una realtà che la legge ostacola in tutti i modi. Sono tante le storie di tunisini costretti a raggiungere la fidanzata o la moglie rischiando la vita in mare dopo il rifiuto del visto.
«Se mangio il sapone mi lasciano uscire?», chiede un immigrato a un mediatore culturale. Lo hanno rinchiuso nel Cie di Santa Maria Capua Vetere, nei pressi di Caserta. Gli atti di autolesionismo (tagli con pezzi di bottiglia, labbra cucite con lo spago, lamette da barba ingoiate) sono frequentissimi. Se vai in ospedale puoi scappare, anche se rischi la pelle. E così nei Cie (secondo il regolamento interno di ciascuno) sequestrano tutto preventivamente, peggio che in carcere. Dai lacci alle stesse scarpe da tennis (con queste si può scappare e correre più in fretta). Dai libri (potrebbero dargli fuoco) ai biliardini (potrebbero ricavarne corpi contundenti). A Modena ti portano via pure i cellulari (potrebbero filmare i pestaggi, come avvenuto a Gradisca d’Isonzo). A Palazzo San Gervasio hanno sostituito le reti con maglie piccolissime dopo che uno dei reclusi aveva passato a Raffaella Cosentino, giornalista di Repubblica, un supporto elettronico con un video fatto col telefonino. Nel filmato la polizia si preparava a impedire la fuga con la forza. “Terroristi, terroristi!”, gridavano i ragazzi musulmani agli agenti cristiani.
Nei centri le “forze dell’ordine” picchiano abitualmente i migranti, in particolare quando si tratta di reprimere le rivolte. Ci sono filmati e ci sono fotografie, ma non denunce, perché le vittime sono facilmente ricattabili. I pestaggi nei Cara sono particolarmente odiosi. Si tratta dei centri che accolgono la gente che scappa dalla guerra e che deve sopportare ulteriori violenze proprio dal paese che dovrebbe proteggerli. Le donne non vengono risparmiate. Una ragazza tunisina è stata violentemente picchiata a Ponte Galeria da agenti. Le contusioni sono evidentissime nella fotografia diffusa su Internet.
Il Cie di Santa Maria Capua Vetere vanta il primato di una vita brevissima. Nato dopo una delle tante emergenze Lampedusa, è stato chiuso dopo un incendio, nel giugno 2011. Un tunisino scopre che il fratello è morto e – come dovrebbe essere ovvio – chiede di andare al funerale al paese di origine. Ma gli negano il permesso e scoppia le rivolta, quindi l’incendio, infine la decisione di chiusura da parte del Tribunale.
«Non ho i soldi per comprare il contratto. Sono in Italia dal 2008, sono partito dalla Libia perché allora Ben Alì aveva chiuso le frontiere. Là dentro c’è mio fratello. Ma non posso entrare e non so che fine farà». Samir è un ragazzo tunisino, lavora nell’agrigentino come pastore. In Italia il contratto di lavoro – e quindi il permesso di soggiorno – si acquista al mercato nero, se hai i soldi e una buona sistemazione. Il “datore di lavoro” di Samir da molto tempo gli deve cento euro a conguaglio di una misera paga.
Per ora è un irregolare (uno di quelli chiamati con disprezzo “clandestini”) non perché non ha un’occupazione, ma perché nessuno lo metterà in regola in una terra dove il lavoro nero è la norma. Per questo anche lui rischia la reclusione in un Cie. Nel frattempo ha fatto 190 chilometri per incontrare il fratello passato da Lampedusa e partito da una zona povera al confine con l’Algeria.
Ma quando arriva scopre che è stato rinchiuso a Pozzallo, provincia di Ragusa, in un hangar del porto. Si tratta di un capannone giallo costruito per stoccare le merci e adattato a centro immigrati per sfollare Lampedusa. Dopo la rivolta di metà agosto – vetri spaccati, lacrimogeni della polizia – non può entrare nessuno. Né operatori umanitari, né avvocati, né parenti. «Gli arabi si ribellano perché sanno che saranno rimpatriati, i subshariani perché sanno che non accadrà. Hanno chiesto l’asilo ma vogliono una risposta», mi spiega Paola Ottaviano, legale dell’Asgi, l’associazione di avvocati che segue i migranti solitamente affidati a legali d’ufficio.
Se ci sono accordi di riammissione e un consolato che collabora, si procede ai rimpatri immediati, spesso dall’aeroporto catanese di Fontanarossa. Gli accordi sono ancora quelli stipulati con Mubarak: negli anni scorsi tanti egiziani sono stati rimandati al dittatore e di loro non si è saputo più nulla. Anche Ben Alì era considerato un democratico, per cui ai suoi sudditi era negato l’asilo. Paradossalmente, dopo aver cacciato il tiranno, ai tunisini è stato concesso il permesso umanitario in Italia.
A Pozzallo e Lampedusa ci sono i Cpsa (Centro di primo soccorso e accoglienza). Sono strutture ponte che servono a smistare i migranti. Quelli che hanno manifestato l’intenzione di chiedere asilo finiranno nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), tutti gli altri nei Cie per le procedure di espulsione (che spesso significa la consegna di un foglio di carta e la condanna alla clandestinità a vita). Da Torino a Trapani, esistono 29 strutture in tutto il territorio nazionale. Il centro di accoglienza non è un carcere, quindi in teoria ci si può allontanare. Solo in teoria, però, perché quando accade i media parlano di fuga e i poliziotti vanno a catturare gli “ospiti”. Quasi sempre si tratta di detenzione illegale. «Il fermo dovrebbe durare al massimo 48 ore, in casi eccezionali 96. Ma con la convalida del giudice di pace, che non c’è quasi mai», ci spiega ancora Paola Ottaviano.
Territori fuori da ogni legge, “diritti sotto sequestro” li definisce il giurista Fulvio Vassallo dell’Università di Palermo. La legge parla del “tempo strettamente necessario all’accoglienza e all’identificazione”. Eppure nei centri di Lampedusa la detenzione dura anche 10 giorni, secondo i dati ufficiali che ci ha fornito l’ente gestore (ci sono poi diverse testimonianze che parlano di settimane). La base Loran è l’esempio peggiore. Pochi giorni fa il procuratore antimafia Teresi – in visita a Lampedusa – ha detto che “in un paese civile dovrebbe essere chiusa”. L’Espresso le ha dedicato una copertina (“La prigione dei bambini”). Il ministero dell’Interno la classifica ancora come Cie nonostante sia usata in prevalenza per i minori non accompagnati, isolati su un promontorio estremo in mezzo al nulla e circondati dal filo spinato, con davanti agli occhi l’ennesimo e surreale cimitero di barche arabe.
I cosiddetti “centri di accoglienza” non sono luoghi pensati per ospitare e rifocillare gli stranieri che arrivano in Italia, come spesso si crede. Lo spirito di solidarietà c’entra poco. I centri servono a svolgere le necessarie procedure burocratiche (prima e seconda identificazione, esame della richiesta d’asilo, etc.), quasi sempre svolte con lentezza esasperante.
Le ribellioni all’interno dei Cie sono quotidiane ma in pochi possono accedere e verificarne le cause. Tantissimi reclusi provengono dal carcere, dove hanno pagato per il reato commesso, ma sono stati rinchiusi nuovamente, quasi sempre a causa di problemi di identificazione e di comunicazione con i consolati. «Ma chi subisce una condanna dovrebbe essere abbondantemente identificato», ha commentato Furio Colombo all’uscita da una ispezione a Ponte Galeria dello scorso 25 luglio.
L’associazione “Medici per i diritti umani” ha denunciato – dopo un’ulteriore ispezione al Cie romano – che la nazionalità più presente è quella rumena. Dunque si tratta di cittadini europei, la cui espulsione dovrebbe essere un caso eccezionale. Il 7 maggio del 2009 Nabruka Mimuni, tunisina, si impiccava nel bagno del centro. Il giorno successivo sarebbe stata rimpatriata. Era una mamma di 44 anni, con marito e un figlio in Italia. Aveva passato la metà della sua vita nel nostro paese. Era stata fermata proprio mentre stava facendo la fila in Questura per rinnovare il permesso di soggiorno, scaduto perché era rimasta momentaneamente senza lavoro. Altra questione è quella delle nigeriane. Quasi sempre, invece che in un Cie, dovrebbero aver accesso ai programmi a favore delle donne vittime di tratta.
Tanta crudeltà si giustifica con la necessità di “riportarli al loro paese”? Alla fine, dati del ministero alla mano, per l’annualità 2008 sono stati spesi 9,6 milioni di euro per 3296 rimpatri forzati. Una piccola percentuale dei reclusi.