PALERMO – Un peschereccio naviga nei pressi di Lampedusa. L’equipaggio avvista in mare alcuni naufraghi e li prende a bordo, un attimo prima che muoiano tra le onde. Il giorno dopo la barca è sequestrata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È la scena più celebre del film Terraferma. Durante la conferenza stampa di presentazione del film, a Venezia, alcuni giornalisti hanno contestato Crialese: l’episodio è inverosimile perché in Italia non c’è nessuna legge che vieta il soccorso in mare.
Invece il film trae spunto da un episodio realmente accaduto e che si è concluso solo il 22 settembre di fronte alla Corte d’Appello di Palermo. Dopo un iter giudiziario lungo quattro anni. Nel film i protagonisti della vicenda sono italiani, nella realtà si tratta di due capitani tunisini (Abdelbasset Zenzeri e Abdelkarim Bayoudh) e di cinque marinai, anche loro tunisini. Avevano salvato 44 naufraghi, seguendo la cosiddetta “legge del mare”. Una regola non scritta ma applicata da tutti gli uomini abituati a navigare: soccorrere chi si trova in difficoltà è un dovere che non si può eludere. “In asperitate maris pro humanitatis” è il motto della Capitaneria di Lampedusa.
Quel giorno, però, gli italiani hanno dimenticato la legge del mare. O forse non hanno potuto applicarla. L’8 agosto 2007, intorno alle 14, la Capitaneria intercettava una comunicazione. “Ci sono 44 persone recuperate da un gommone. C’è un bambino in cattive condizioni di salute. Ora stanno su un motopesca non italiano”. Alle 18 le unità tunisine sono affiancate dalla nave “Vega” della Marina Militare, da due motovedette della Guardia Costiera e da una della Finanza. Un elicottero sorvola lo specchio d’acqua. Si apre l’evento Sar (soccorso in mare) e viene appurato che ci sono a bordo due persone in cattive condizioni di salute. Uno di loro è un bambino disabile. Sull’altro motopeschereccio c’è una donna in stato di gravidanza, “ma non in stato terminale”, annota con freddezza il verbale. Nel frattempo il mare è forza quattro e le onde sono alte due metri. Alle 18.50, finite le verifiche, l’evento Sar è dichiarato concluso. I pescherecci ricevono l’ordine di invertire la rotta, nonostante il porto più vicino sia quello di Lampedusa.
Iniziano “strane manovre a zig-zag” (così le chiamano i rapporti), mentre via radio uno dei due comandanti riferisce di avere a bordo una persona che sta male. Dalla distanza di 10 metri, con un megafono, i militari intimano l’inversione di rotta. “Se entrate nelle nostre acque territoriali vi arrestiamo”, dicono in italiano e in inglese. Tornare indietro? “N’est pas possible”, risponde Zenzeri. Le navi italiane capiscono che c’è il rischio di collisione e si fermano. Le due barche tunisine entrano in porto e l’equipaggio è subito tratto in arresto.
L’accusa è “di avere compiuto atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato, in violazioni delle disposizioni delle leggi sull’immigrazione, di 44 cittadini extracomunitari, trasportati a bordo dei motopesca Mohamed El Hedi e Morthada dalla Tunisia alle coste italiane”. Con l’aggravante di “trarne profitto”. Quest’ultimo elemento, contestato dalla procura di Agrigento, veniva derubricato come agevolazione all’ingresso semplice di clandestini. L’accusa ai marinai è ancora più surreale: avrebbero “rafforzato il proposito criminoso” dei capitani, rafforzandone la “determinazione a proseguire la navigazione in violazione dei reiterati ordini di arrestare la navigazione e invertire la rotta”.
Il 17 novembre 2009 il Tribunale di Agrigento assolve i tunisini dal reato che riguarda l’ingresso illegale ma condanna – solo i capitani – per “resistenza a pubblico ufficiale” e “violenza contro nave da guerra”. Come? “Compiendo molteplici, repentini e bruschi cambi di rotta, anche di oltre 10 gradi, impedendo alla motovedetta di affiancarsi così da costringerla ad effettuare improvvise manovre onde evitare collisioni”. Due anni e sei mesi per aver raggiunto il porto più vicino anziché tentare il rientro in patria sfidando le onde altissime, la scarsità di carburante e il rischio per la salute di almeno due persone.
Appena giunti in porto, il bimbo disabile e la donna incinta vengono visitati al pronto soccorso dell’isola e quindi trasferiti in due ospedali di Palermo. La testimonianza dell’infermiera che nel 2007 lavorava con Medici Senza Frontiere racconta che il bambino era in uno “stato di difficoltà psicomotoria” (una vera e propria crisi epilettica, con la bava alla bocca) cui si aggiungeva uno stato di grave denutrizione e disidratazione. La donna gravida non riusciva a stare in piedi, per un dolore addominale che le impedisce di bere da sola.
Le unità italiane hanno tentato – senza successo – un vero blocco navale, cioè un tentativo di respingimento in mare. I migranti salvati erano da tre giorni in mare e provenivano dalla Libia. Tra loro, eritrei, etiopi, sudanesi. Dunque potenziali rifugiati. “Il respingimento si pone in contrasto con tutte le Convenzioni internazionali che stabiliscono il riconoscimento del diritto di asilo anche in acque internazionali, come diritto di accedere al territorio nazionale per presentare una domanda di asilo, e il dovere assoluto di salvaguardia della vita umana in mare” annota il giurista Fulvio Vassallo, esperto di legislazione in materia e docente all’Università di Palermo.
In aula il capitano racconta che erano usciti per pescare e nel frattempo avevano avvistato un gommone. Si erano prodigati per salvare le persone che stavano affondando. Lui stesso aveva chiamato via radio Lampedusa per i soccorsi, dirigendosi verso il porto che in quel momento era il più vicino. I migranti erano saliti sui due pescherecci, tra loro la donna incinta e il bambino in pericolo di vita. Avevano adottato la rotta a zig-zag perché le condizioni del mare impedivano una navigazione regolare. Infine, dice con orgoglio che lui – come capitano – è il solo responsabile dell’accaduto.
L’accusa più svilente è quella di essere uno scafista. Gli inquirenti ispezionano l’interno dei pescherecci. Non ci sono attrezzi, annotano, c’è poco ghiaccio, non c’è pesce. Non c’è neanche puzza di pesce. “Eravamo in mare da tre giorni e il pescato è stato trasferito su un’altra barca, di cui ho fornito gli estremi”, ribatte Zenzeri. I magistrati ipotizzano che le due barche potevano benissimo pescare “a cianciolo”, un metodo comunissimo nel Mediterraneo. La barca madre recupera il pesce con le reti, le altre a circolo illuminano il fondale con le lampare.
I due pescherecci sono regolarmente registrati nel comparto di Monastir. Mentre gli investigatori disquisiscono sulle tecniche di pesca, le barche rimangono sequestrate nel porto di Lampedusa. Sono ancora lì, sul suolo italiano, ormai pressoché inutilizzabili.
«La legge dello Stato va contro i doveri morali del mondo civile, lasciar morire le persone in mezzo al mare è un segno di grandissima inciviltà, una barbarie assurda», dice Emanuele Crialese. «Ci bombardano di notizie in tv e sui giornali e a volte non ci rendiamo nemmeno più conto della tragedia che c’è dietro. E sequestrare pescherecci ai pescatori che salvano i dispersi in mare con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina è la cruda realtà con cui dobbiamo fare i conti».
Il processo contro i pescatori tunisini è rimasto pressoché sconosciuto in Italia. Ha interessato però la stampa tedesca (ne ha parlato diffusamente Der Spiegel) e il Parlamento europeo. Nel settembre 2007, 105 europarlamentari hanno sottoscritto un appello di solidarietà con i marinai tunisini. È diventato una vicenda simbolica (“il soccorso in mare diventa reato”), oltre che il frutto di contrasti politici sulla gestione dell’immigrazione. Quanti pescatori, in questi anni, hanno lasciato morire in mare i naufraghi che avevano avvistato? Tutti avevano in mente il destino di Zenzeri e Bayoudh. La loro azione di salvataggio è stata ripagata col sequestro degli strumenti di lavoro, quattro anni di processi e 40 giorni di carcere.