Impresa sociale italiana: a Cameron piace, noi rischiamo di perderla

Impresa sociale italiana: a Cameron piace, noi rischiamo di perderla

Anticicliche. Così si definivano le imprese sociali a inizio crisi. In grado cioè di far girare, finalmente, il sistema economico e sociale dalla loro parte, sfruttando il momento critico del mercato e dello Stato. Non è andata proprio così, almeno stando ai dati dell’Osservatorio Isnet anticipati da Il Sole 24 Ore e riguardanti un panel di 400 cooperative sociali, il modello fin qui più diffuso in Italia per organizzare attività d’impresa che perseguano “l’interesse generale della comunità” attraverso la fornitura di servizi socio assistenziali ed educativi e l’inserimento al lavoro di persone svantaggiate.

La resilienza dell’ultimo biennio non sembra aver lasciato spazio a un cambio di passo di un settore che negli ultimi trent’anni è cresciuto a ritmi intensi: 14mila unità imprenditoriali e 317mila addetti per un giro d’affari di quasi 9 miliardi di euro. Ora questo patrimonio sembra erodersi, soprattutto sul versante occupazionale. Come mai? Le variabili da chiamare in causa sono molte, non ultimo il fatto che buona parte di queste imprese, negli ultimi anni, ha smarrito o ridimensionato il suo carattere autenticamente comunitario e bottom up, preferendo “accreditarsi” (anche in termini formali) come fornitore low cost della Pubblica Amministrazione. Legando il proprio destino ai budget della spesa pubblica, soprattutto locale, sorprende relativamente leggere che il sentiment delle cooperative sociali rispetto al fatto di vivere una fase di critica sia passato dal 15% del 2007 al 40% del 2011. Senza dimenticare che ai tagli al welfare sono da sommare anche quelli previsti, nell’ultima manovra governativa, alle agevolazioni fiscali per le cooperative.

Altri dati lasciano comunque intravedere una possibile risposta, anche se non unitaria. La rilevazione di Iris Network e Unioncamere su un diverso campione di imprese sociali (cooperative sociali e altri soggetti non profit di natura produttiva) informa, ad esempio, che nell’ultimo biennio è crescita dal 21% al 27% la percentuale di imprese di questa particolare tipologia che ha investito in ricerca e sviluppo, puntando soprattutto sull’innovazione organizzativa e gestionale (19%) piuttosto che su quella di prodotto (8%). Investimenti che nella gran parte dei casi sono stati autofinanziati (64%), nonostante che, anche in Italia, siano sorte di recente diverse iniziative, soprattutto nell’ambito del credito, che si sono specializzate nella finanza all’impresa sociale. Ad esempio Banca Etica e Banca Prossima, quest’ultima costituita da Intesa San Paolo.

Ma non sono solo gli asset tipicamente imprenditoriali che possono essere meglio valorizzati. Trattandosi di imprese sociali si può contare anche su importanti valori “intangibili” come l’apporto dei volontari e il coinvolgimento di lavoratori, utenti, comunità locali nella gestione dell’impresa e dei suoi processi produttivi. Anche in questo caso però si assiste a scelte differenziate, che non sembrano ancora essere adeguatamente a regime. Ad esempio il 47% coinvolge i lavoratori nelle scelte strategiche dell’organizzazione, ma solo l’8% lo fa con gli utenti dei servizi. E ancora il 45% offre servizi a titolo gratuito o a tariffe differenziate per le fasce deboli, ma solo il 29% si è impegnato nella produzione di beni e servizi non offerti da altre agenzie sia pubbliche che private.

Da dove ripartire quindi? Carlo Borzaga, presidente di Iris Network e di Euricse e uno dei massimi studiosi europei in materia di impresa sociale non ha dubbi: “I dati parlano chiaro: in una fase così difficile le imprese sociali reagiscono in modo diverso. Molte rilanciano, investendo e innovando, altre rischiano di rimanere legate a modelli di business obsoleti. Le competenze, ma anche le culture e i valori dell’imprenditore sociale sono la chiave di volta per un nuovo start up dell’impresa sociale”. Ed è proprio sulla figura dell’imprenditore sociale che si incentra la nona edizione del Workshop sull’impresa sociale che si terrà il prossimo 15 e 16 settembre a Riva del Garda in Trentino.

Ruolo, competenze, ma anche valori e culture di riferimento dell’imprenditore sociale saranno oggetto di approfondimento in nove sessioni tematiche dove verranno presentate “buone prassi” a livello nazionale e internazionale grazie anche al contributo di The Hub Rovereto. Sì perché di imprenditoria sociale si parla non non solo nei contesti tradizionali delle organizzazioni non profit e dei servizi sociali, ma in nuovi ambiti e con approcci diversi. Gli esempi si moltiplicano, grazie a una fiorente pubblicistica: i best sellers di Muhammad Yunus tradotti in tutto il mondo; gli articoli del Financial Times dedicati alle social business schools lanciate da importanti Università e, non ultimo, l’enfasi della BBC e di The Guardian sull’imprenditoria sociale italiana, considerata antesignana della Big Society lanciata dal premier inglese David Cameron.

Sono alcuni esempi di una tendenza comune: la generazione di benefici in vario senso “sociali” è un elemento che contraddistingue sempre più l’agire imprenditoriale in senso lato. In attesa di discuterne, qualche informazione ricavata da un’indagine su un centinaio degli oltre trecento partecipanti al Workshop, la maggioranza dei quali si definisce imprenditore sociale (60%) o aspira ad esserlo (27%). Si tratta di persone con alle spalle altre esperienze lavorative, soprattutto in aziende for profit (48%) dimostrando così una certa osmosi tra settori. Inoltre molti di essi lavorano in più di un’organizzazione di impresa sociale (30%) enfatizzando una spiccata competenza di networking. Infine, il pezzo forte: le competenze possedute e quelle sulle quali si vuole investire.

Tra le prime spiccano nuovamente capacità relazionali con i collaboratori e gli stakeholders, promuovendo legami di appartenenza rispetto alla mission dell’impresa. Tra quelle su cui investire, spicca in modo netto la capacità di anticipare le tendenze dei mercati. Il contrattacco alla crisi delle imprese sociali, come recitava il titolo di un report inglese sul tema, parte proprio da qui.

*Paolo Campagnano è socio fondatore di The Hub Rovereto;
Flaviano Zandonai è segretario di Iris Network 

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