L’ecologia, come la politica, si liberino dal dominio dell’economia

L'ecologia, come la politica, si liberino dal dominio dell'economia

Gran parte della cultura ecologica negli ultimi decenni ha insistito soprattutto sull’urgenza di rendere sostenibile il “carico” esercitato sull’ambiente dallo sviluppo industriale e dalla crescita della popolazione. In tal modo l’ecologia si è proposta, non solo come critica della modernità, ma anche come strategia di razionalizzazione dell’economia e del rapporto della società con la riproduzione della vita. 

Il discorso ecologico – specie nelle sue versioni scientifiche – ha instaurato così un rapporto forte con le visioni dominanti della società moderna, secondo le quali essa deve essere governata regolando, da un lato, i suoi meccanismi produttivi e, dall’altro, i processi biologici che l’attraversano. Si tratta di un rapporto tutt’altro che accidentale sia con la ragione economica sia con la matrice biopolitica della modernità, di cui è possibile ritrovare i presupposti in alcuni momenti fondamentali della genesi dell’ecologia scientifica, quali la nascita della geografia botanica, l’elaborazione della teoria evoluzionistica e la formulazione della teoria degli ecosistemi.

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La geografia botanica, nei primi decenni dell’Ottocento, oltre a creare le condizioni essenziali del sapere ecologico mediante la sua attenzione ai rapporti fra specie vegetali e contesti geo-climatici, si afferma a ridosso delle necessità di sviluppo dell’agricoltura in un momento in cui sia l’espandesi dell’economia di mercato sia i problemi demografici rendono pressante il bisogno di prodotti della terra.

L’evoluzionismo darwiniano, d’altra parte, non è soltanto il contesto nel quale matura la prima definizione della scienza ecologica (Haeckel), ma anche l’ambito in cui i rapporti fra le “variazioni demografiche” delle specie e le loro condizioni ambientali di sopravvivenza si impongono come oggetto fondamentale di studio.

In proposito, Darwin riconobbe il suo debito teorico verso Malthus, economista e autore del famoso Saggio sul principio di popolazione. In quel libro – come ha notato Foucault – i problemi economici si incrociano in maniera evidente con questioni di biopolitica. Malthus vi sostiene che la popolazione umana tende a crescere molto più rapidamente di quanto cresca la produzione di mezzi di sussistenza; egli si fa interprete perciò di preoccupazioni che – sia pure in modo diverso – verranno riproposte dalla cultura ecologica nel Novecento. Come si può evitare – egli si chiede – che lo sviluppo della produzione di beni di sussistenza stimoli la crescita demografica oltre i limiti della loro offerta? L’ecologia, da parte sua, si domanderà: come si può evitare che il rapporto fra sviluppo produttivo e crescita della popolazione comprometta le risorse naturali e le condizioni ambientali da cui dipende? Si tratta in entrambi i casi, appunto, di questioni sia economiche che biopolitiche.

L’attenzione di Malthus e Darwin al rapporto fra variazioni demografiche e condizioni materiali di sopravvivenza, si rifletterà negli sviluppi della cosiddetta ecologia delle popolazioni. Essa si occuperà sia delle relazioni fra cicli demografici e ambienti delle varie specie sia delle loro implicazioni economiche, per esempio, negli studi sulle popolazioni di insetti parassiti che invadono le campagne o sui rapporti fra le varie specie di pesci destinati alla pesca.

Con la nascita della teoria degli ecosistemi negli anni Quaranta del secolo scorso, i saperi ecologici vengono ricollegati strettamente alle scienze fisico-chimiche, fra le quali primeggerà la termodinamica: le relazioni fra vita e ambiente, infatti, vengono descritte soprattutto in termini di trasformazioni di energia in materia organica e di materia organica in energia. Questo approccio tende a valutare il “funzionamento” degli ecosistemi utilizzando i concetti di rendimento, efficienza energetica, produttività biologica. In definitiva, ciò che conta è la capacità dell’ambiente di “produrre biomassa” in modo equilibrato ai diversi livelli dell’ecosistema e nei cicli riproduttivi delle varie specie.

Anche in questo caso il discorso ecologico presenta implicazioni di tipo sia economico che biopolitico: la vita deve svilupparsi secondo precisi criteri di efficienza nell’uso delle risorse e di equilibrio nella riproduzione biologica. L’orientamento economico sembra comunque prevalere su quello biopolitico. La teoria ecosistemica, infatti, sarà la base principale della ecological economics e delle teorie dello sviluppo sostenibile, le quali si porranno domande di questo tipo: quante risorse energetiche e materiali vengono consumate dall’economia e quante di esse l’ambiente è in grado di rigenerare in un dato periodo? Quanti e quali residui delle attività economiche l’ambiente può permettersi di accogliere e reinserire senza danni nel ciclo della sua riproduzione?

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Le prospettive di conversione ecologica dell’economia, basate su simili interrogativi, in fondo non hanno mai smesso di apparire disperate. Il che certamente si può spiegare dicendo che la nostra è pur sempre una società capitalistica: tendendo soprattutto al profitto, essa perde di vista facilmente i limiti di sostenibilità della sua economia. Ma forse bisogna aggiungere pure che la nostra società è incapace di rispettare questi limiti anche perché, da molto tempo, ha perso di vista altri limiti che nella sua storia le hanno consentito di distinguere l’economia dall’azione politica, come ci ha mostrato Hannah Arendt. Comunque sia, se l’ecologia è anche una prospettiva politica, essa non può ignorare l’esigenza ormai ineludibile di liberare l’iniziativa politica dal predominio dell’approccio economico con il mondo.

Quando, negli anni Ottanta del secolo scorso, venne proposta la strategia dello sviluppo sostenibile, non passò molto tempo perché l’economia in fase di globalizzazione neoliberista si dimostrasse “indisponibile” a praticarla. Perciò da allora alla prospettiva dell’economia ecologica si è andata man mano sovrapponendo una sorta di biopolitica ambientale del giorno dopo: ormai la sopravvivenza ai disastri ecologici – da Chernobyl alle emergenze rifiuti, a Fukushima – sembra una delle poche possibilità che davvero ci vengono concesse di far valere il diritto all’ambiente in cui viviamo.  

*Professore di Filosofia etico-politica presso l’Università di Bari.

[Estratto della Lezione magistrale tenuta a Sassuolo questa mattina alle ore 10,00]

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