Per salvarsi la pelle Gheddafi dovrebbe scappare in Israele

Per salvarsi la pelle Gheddafi dovrebbe scappare in Israele

Non in Niger, non in Venezuela. Nemmeno nel Burkina Faso. Dove potrebbe andare a rifugiarsi il Colonnello, ed essere perfino accolto con tutto l’affetto possibile, se mai deciderà di lasciare per sempre la Libia? Alla domanda risponde l’Economist: in Israele. Sembra una provocazione, e quasi lo è. Nella cittadina di Netanya, un resort turistico a nord di Tel Aviv, spiega il settimanale londinese, Gheddafi è atteso come un amico. Di più: come un fratello.

«Io e Gheddafi abbiamo una bisnonna in comune», racconta Gita Boaron a una televisione israeliana. «Lei avrebbe abbandonato il suo marito ebreo per uno sceicco musulmano». Una vicenda antica, emersa altre volte, proprio per voce della stessa Gita. Una storia d’amore inter-religioso da cui, dopo un paio di generazioni, sarebbe nata la Guida della Rivoluzione. La voce troverebbe conferma dalla partecipazione del raìs a un matrimonio ebraico nel 1960, quando aveva 18 anni e non era ancora il Colonnello.

Insomma, stando a queste notizie, Muammar Gheddafi è, per la legge rabbinica, un ebreo. La discendenza, si sa, è matrilineare. E la sua ultima spiaggia, dopo il crollo del regime, sarebbe in Israele, dove si sono installati molti dei 100.000 ebrei israeliani di origine libica. Che del Colonnello, poi, non hanno nemmeno una cattiva opinione. «Temiamo molto di più i ribelli. Sono un pericolo per Israele: tra loro ci sono molti estremisti che odiano gli ebrei», spiega Pedazur Benattia, fondatore del centro Or Shalom, che si occupa di conservare le tradizioni della diaspora in Israele degli ebrei libici.

Eppure, a ben guardare, qualche motivo di ostilità anche nei confronti del dittatore libico dovrebbe averlo. Ad esempio, molti dei beni di ebrei-libici sono stati confiscati da Gheddafi, che li ha nazionalizzati e ha poi bruciato gli archivi, per cancellare ogni prova di proprietà. «Non credo che un risarcimento sarebbe la cosa giusta, per noi». E perché? «Perché sarebbe difficile, se non impossibile, stabilire a chi spetta cosa. Ci faremmo la guerra tra di noi». In ogni caso, non servirebbe nemmeno: Gheddafi si è già riabilitato, rinnegando il suo anti-ebraismo d qualche anno fa (e le persecuzioni che ne erano seguite). Come aveva dichiarato, nel 2009, al New York Times, «ebrei e musulmani sono cugini, tutti discesi da Abramo». E, soprattutto, «il popolo ebraico vuole e merita una patria». Guarda caso, lo stesso anno in cui si è diffusa la storia, o leggenda, delle origini ebraiche del raìs.

«Qualsiasi cosa abbia fatto, Israele è casa sua», rincara Rachel, mentre l’Economist la descrive intenta a gustare una bevanda tipica della tradizione libica come il macchiato, accompagnata dall’abambara, un tipo di dolce. Dovrebbero pensarci, lui e i suoi familiari, a fare l’aliyah, il viaggio di ritorno ebraico. E chiedere la cittadinanza israeliana. «Dopo tutto», alza le mani, «è un ebreo anche lui».

E allora a Netanya lo aspettano con calore. Tanto da aver chiamato “Gheddafi” una delle piazze del paese. Non sarà facile, però, che il leader libico si faccia vedere da quelle parti. Almeno, non a breve. La Corte Penale Internazionale ha chiesto all’Interpol di emettere un “avviso rosso” nei confronti di Muammar Gheddafi, suo figlio Saif Al-Islam e l’ex capo dell’intelligence Abdullah al Senoussi. È il tipo di avviso che permette alla polizia di diffondere i mandati d’arresto a livello internazionale.

Non solo: il Consiglio Nazionale di Transizione avrebbe creato un’unità militare speciale di oltre 200 uomini incaricati di dare la caccia al raìs. Secondo il portavoce, Anis Sharif, lo avrebbero perfino già individuato: «è asserragliato a Bani Walid», dove, dall’altopiano, tenterebbe con i suoi uomini l’ultima difesa. Sotto, nel frattempo le truppe dei ribelli si preparano all’attacco, che sperano finale. E le spiagge di Tel Aviv, al Colonnello, sembreranno lontanissime.

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