Indispensabile per gli Stati Uniti, come sostiene Andy Grove, ma anche per l’Italia. La crescita del settore manifatturiero è una delle carte più importanti che l’Italia può e deve giocarsi per rilanciare la propria economia. È quello che pensa Gioacchino Garofoli, docente di politica economica all’Università dell’Insubria di Varese. Che aggiunge: l’errore è stato credere troppo poco nell’industria e puntare alla finanza.
Professor Garofoli, facciamo il punto della situazione. Com’è il manifatturiero in Italia?
Cominciamo con una premessa. Sono del tutto d’accordo con quello che dice Prodi, nel suo commento: in Italia il manifatturiero non è importante. È vitale. È il nostro settore produttivo, e va tenuto bene, va coltivato. Pensi solo a una cosa.
Dica.
L’Italia, insieme alla Germania, è l’unica in Europa che si fonda sul manifatturiero. Se lo perdiamo, è la fine, la fine.
Bene. E come sta il manifatturiero, oggi?
Male. Si possono dire due cose. Anzitutto, negli ultimi anni ci sono stati pochissimi investimenti nel settore. Che spiega il problema che oggi è al centro del dibattito, cioè la bassa crescita della produttività. È proprio causata da una diminuzione degli investimenti: come si fa a fare innovazione, in questo modo? Come si fa a diventare competitivi sul mercato? Ecco. Tutto è cominciato, diciamo, nel ’92/’93. Da quel periodo, l’Italia ha, diciamo dormicchiato.
E perché?
Perché avevano un grande vantaggio derivante dai costi, molti bassi. Ma così ci si è dimenticati che la vera forza è l’innovazione. Ma secondo lei un Paese avanzato può competere affidandosi ai bassi salari? Vede, qui si vede la differenza tra Italia e Germania: noi, di fronte alla caduta della domanda interna, siamo rimasti fermi. Ad aspettare tempi migliori. La Germania, invece, si è data da fare. Da un lato cercando nuovi mercati, esplorando nuove possibilità. Oppure investendo nell’innovazione, e così è rimasta a galla. Noi, abbiamo aspettato il momento buono, che è arrivato nel 2010, ma la crisi mette tutto a rischio, e ha fermato ogni crescita.
Questa è la prima cosa. La seconda?
La seconda è il problema della delocalizzazione. È un problema forte. Di fronte a questo miraggio, abbiamo rotto i legami che intercorrono tra le imprese nei distretti. Si è scelto di spostare la produzione lontano, dove i salari sono più bassi. Ma che idea è? Chi sceglie un percorso individualista, poi muore. Si è preferito un’ottica di breve periodo, cioè i costi più bassi, rispetto a una visione di lungo periodo, che invece è una seria azione di innovazione. E poi, anche guardandoci bene, i costi non sono così pochi: ci sono problemi di controllo, di fiducia, di garanzie. Tutta roba che non conviene.
I problemi sono questi. Ora serve un colpevole.
Un colpevole solo non esiste. È un problema radicato nella cultura. E non mi riferisco solo a una cultura nazionale. Coinvolge tutto, anche l’Europa. Per esempio, io trovo ridicolo, ri-di-co-lo, che i problemi politici vengano definiti e legati al controllo delle agenzie finanziarie. Ma come? La Merkel e Sarkozy si trovano in tutta fretta per adottare misure il cui scopo è tranquillizzare i mercati. Ma scherziamo? L’economia è una cosa seria. Dietro c’è un sistema sociale. Non si dovrebbe mai, e dico mai, mettere i mercati in condizione di ricattare i Paesi.
Sì, ma per l’industria?
È un problema anche per l’industria. Si è privilegiato, in questi anni, il settore finanziario, a danno dell’economia reale. Non ci sono state idee, da nessuna parte. E a livello nazionale, e a livello regionale (perché, poi, sono le regioni a occuparsene davvero). Ma sono poche le regioni che lo sanno fare bene. Ad esempio l’Emilia Romagna ha attuato un programma di coesione tra ricerca e impresa che sta dando i suoi frutti. Sì, ma siamo in un ritardo clamoroso, non si può così.
E poi c’è la crisi, la paura, e la manovra.
Guardi che non si tratta di un problema solo nazionale. È Europeo: non si può pensare di risolvere i problemi con il pareggio di bilancio. Con il rischio, dicono, che sia recessivo. E se non ci sono risorse per l’innovazione, lo sviluppo e l’infrastrutture, non ci sono molte speranze.
Ma qualche idea per tirarci fuori da qui ce l’avrà. O no?
Una ricetta è questa. In primo luogo, occorre tornare alla territorialità. Nei distretti, si agisce creando reti nuove. Integrando, diffondendo conoscenze e fiducia.
Poi?
Poi lavorando sui saperi. Il nostro problema è una questione di cultura. Va cambiata.
E come?
Vanno educati i protagonisti della classe dirigente. I politici, prima di tutto. Devono perdere questa miopia. Ma anche gli imprenditori: devono imparare a chiedere quello che serve, fare proposte, lanciare idee, progetti, metodi. Non devono fare lobbying, ma cercare di chiedere le condizioni per fare sviluppo. E poi, anche il mondo dei ricercatori. Non servono a nulla se stanno nel loro mondo astratto, privi di contatto con la realtà, a livello di teoremi. Servono applicazioni, lavori che vadano fianco a fianco con le imprese, che portino nuove soluzioni, invenzioni, pensieri.
Sì, ma come?
Per esempio con riunioni, progetti. Noi, ad esempio ne abbiamo fatte alcune, molto efficaci. Gli imprenditori si sono conosciuti, hanno stretto rapporti nuovi, spezzando quelli abitudinari. Un modo per incentivare la collaborazione a progetti e idee. Così si fa impresa. E, ripeto, si insiste sul territorio.