Senza manifattura si muore, (ora) lo sanno anche gli anglosassoni

Senza manifattura si muore, (ora) lo sanno anche gli anglosassoni

Quando una votazione – qualunque essa sia – si conclude col 76 per cento di sì e il 24 per cento di no, allora possiamo tranquillamente affermare che si è conclusa con una maggioranza schiacciante (come altro chiamare i tre-quarti di una torta?). Ebbene, questo è ciò che è avvenuto nei primissimi giorni di luglio in una «casa» molto autorevole, l’Economist di Londra, che sul suo sito web ha ospitato – com’è ormai abitudine – un dibattito fra due illustri economisti (o esperti in altri campi a seconda del tema). Funziona così: anzitutto, i due partecipanti la devono pensare in maniera diametralmente opposta sulla mozione posta in discussione; dopodiché sulle loro rispettive tesi chiamano i lettori del settimanale britannico, sparsi dappertutto nel mondo, a esprimere via Internet il loro voto.

La mozione della settimana fra il 28 giugno e il 6 luglio suonava così: «L’Economist crede che un’economia non possa avere successo senza una grande base manifatturiera». A difendere la mozione della casa è stato chiamato Ha-Joon Chang, giovane professore di Economia a Cambridge, mentre contro di essa una delle eminenze grigie dell’accademia americana, Jagdish Bhagwati, professore di Economia e Diritto alla Columbia University. Nel momento in cui, sin dal primo giorno del dibattito, i lettori hanno iniziato a esprimere le loro preferenze è emersa la schiacciante maggioranza di cui si diceva in apertura; si è addirittura partiti con 80 contro 20 per cento. Poi Bhagwati è riuscito a ridurre un po’ il gap, ma non abbastanza, come ha commentato in conclusione Patrick Lane, il giornalista dell’Economist scelto per moderare questo dibattito.

I risultati del dibattito de l’Economist sull‘importanza della manifattura
Chissà come sarebbe andata a finire alcuni anni fa, durante la piena dominanza del «pensiero unico» e di quello che Edmondo Berselli, nella sua ultima toccante lezione “L’economia giusta”, ha chiamato «l’imbroglio liberista». Quel che è certo è il profondo significato di questo dibattito – il fatto stesso cioè che l’Economist l’abbia promosso in quei termini – e le percentuali con le quali si è concluso. È certamente un segno dei tempi. Ma su quali punti-chiave si è sviluppato il ragionamento di Ha-Joon Chang per risultare così convincente? Dovendo sinterizzare, senza pretesa di completezza (Chang è intervenuto tre volte con scritti assai densi e penetranti) possiamo evidenziare i seguenti:

(I) È nella manifattura che si sperimentano i più elevati ritmi di crescita della produttività ed è quest’ultima – a sua volta – che porta a più elevati standard di vita;

(II) Sono quelle manifatturiere le attività più aperte al commercio internazionale e questo rende essenziale per un paese realizzare performance relativamente migliori degli altri. Con le parole dell’autore: «Se l’industria manifatturiera di un paese ha una crescita della produttività più bassa che le sue controparti estere, essa diventerà non competitiva a livello internazionale, portando così a problemi della bilancia dei pagamenti nel breve periodo e a standard di vita calanti nel lungo»;

(III) Nell’ambito del macro-settore terziario, in molte attività di servizio – è sempre l’argomentazione di Chang – è davvero difficile, per ragioni intrinseche, aumentare la produttività: ne consegue che «i servizi stanno diventando sempre più costosi in termini relativi» (data la più elevata crescita della produttività nella manifattura) e questo spiega il perché «nei paesi ricchi sembra che le persone stiano consumando sempre più servizi»;

(IV) Vi è tuttavia un sottoinsieme delle attività di servizio (ad esempio, finanza, tlc e trasporti) dove vi è stata, in anni recenti, una forte crescita della produttività: non accidentalmente, ci dice Chang, giacché questi sono servizi «tradable» e rappresentano di fatto «”producer” services, per i quali i principali clienti sono imprese manifatturiere, e così la loro crescita è in larga parte dipendente dalla vitalità della manifattura»;

(V) L’ultimo punto-chiave ha a che fare con la natura stessa del processo produttivo, in quanto nel suo primo intervento (Opening remarks), Bhagwati aveva posto in discussione la primazia delle industrie manifatturiere cosiddette avanzate (o hi-tech) ponendo a confronto i «chips» (quelli dei semiconduttori) con le «potato chips». Ebbene, il visitatore della fabbrica dove si producono le famose Pringles troverebbe una produzione perfettamente automatizzata e che non ha nulla da invidiare a quella dei semiconduttori; anzi. È dunque di fronte a questa osservazione di Bhagwati, che Chang nel suo secondo intervento (Rebuttal remarks) fa notare come il processo descritto da Bhagwati si riferisca solamente all’ultima e meno sofisticata parte – il «packaging » – della produzione di un semiconduttore; ciò che conta è il «fabrication process» che richiede – questo sì – l’utilizzo di materiali di grande purezza, nonché di processi produttivi molto sofisticati e costosi. Insomma, annota Chang, «ciò che conta non è che cosa produci ma come lo fai».

Si potrebbe continuare a lungo nel riferire lo scambio di opinioni fra Chang e Bhagwati, portato avanti dai duellanti vuoi in punta di fioretto, ricorrendo ai mostri sacri della scienza economica, vuoi con vere e proprie sciabolate. Tuttavia, i punti richiamati soprattutto dalle argomentazioni di chi ha rappresentato la tesi dell’Economist sono sufficienti, crediamo, a rendere l’idea della posta in gioco. I lettori, come dicevamo, hanno ampiamente condiviso l’idea che senza una solida base manifatturiera non è possibile avere successo nell’economia moderna.

Ora, se dal cuore del capitalismo anglosassone giunge questo messaggio, molto grave – un errore fatale – sarebbe quello di non farne tesoro in un Paese come il nostro; un Paese che fortunatamente, grazie agli sforzi delle sue imprese, non ha perso la sua tradizione manifatturiera ma che oggi deve porsi il problema di come farla evolvere nel mondo che cambia. Alcuni preziosi spunti ci vengono sia dal commento – ospitato da questo giornale – di Romano Prodi alle tesi espresse dal fondatore di Intel, sia dalla successiva intervista a Gioacchino Garofoli: la questione di una (nuova) politica industriale si pone con forza.

Qui la faccenda si fa – se possibile – ancor più complicata, in primis dal punto di vista intellettuale considerando la scarsa popolarità di cui quest’area di policy gode fra gli economisti e fra non pochi esponenti politici. Anche sotto questo profilo però alcune cose stanno cambiando, e forse è possibile intravedere un nuovo spirito del tempo. Difatti, sempre l’Economist dedicò (torniamo indietro leggermente, al luglio 2010) uno dei suoi dibattiti proprio alla politica industriale, ponendo sul tavolo questa mozione: «Crediamo che la politica industriale fallisca sempre». Come andò a finire? In quel caso vinse largamente l’oppositore della mozione, Dani Rodrik della John Kennedy School of Government (Harvard University), capace di portare dalla sua ben il 72 per cento dei lettori, lasciando al difensore della mozione, Josh Lerner (Harvard Business School) solo il 28 per cento dei consensi (ne ho scritto sull’edizione online della rivista “il Mulino”).

Se mettiamo insieme i risultati di questi due dibattiti, il sentiero pare tracciato: per crescere, serve l’industria manifatturiera e una nuova politica industriale può servire a promuoverne i necessari cambiamenti strutturali (la «distruzione creativa» di schumpeteriana memoria). Rispetto ai tempi, non troppo lontani, dei castelli di carta non è un cambiamento da poco.

*docente di Economia industriale all’Università di Parma

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