Era il 6 agosto, quando un elicottero Chinook dell’Isaf venne abbattuto in Afghanistan. A bordo, trentotto soldati, 31 delle forze speciali americane, e sette afghani. Morirono tutti. Per gli Stati Uniti, fu l’incidente più sanguinoso dall’inizio della guerra. E, in più, un lutto significativo: tra i morti figurava anche Lou Langlais, 44 anni, di Santa Barbara. Quella notte di inizio maggio ad Abbottabad, nella missione più delicata, più famosa, (anche se forse non la più pericolosa) della sua vita, c’era anche lui. Era membro della squadra dei Navy SEALs che ricevette l’ordine di eliminare Osama bin Laden. Proprio lui. E che, come sempre, portò a termine la missione, lasciando dietro di sé un intrico di stupore e di ombre, domande e incertezze.
Ma anche se Lou Langlais era un soldato, un guerriero, la guerra non gli piaceva. «Lo faccio solo perché non capiti a voi, di farlo», ha detto, in un messaggio registrato per i figli e la moglie, da mostrare nel (malaugurato) caso di morte ed emerso nei giorni scorsi sui giornali americani, in particolare sul Los Angeles Times. «Non voglio che combattiate una guerra. Non voglio che combattiate questa guerra». E ancora: «nella vostra vita, potrete diventare veterinari, dottori, avvocati, o quelli che spostano i cassonetti e raccolgono la spazzatura. Chissenefrega. Ma non voglio che veniate qua, a fare quello che faccio io, no. Non voglio». Perché sì, «la guerra sembra una cosa fica, ma non lo è. Non lo è proprio per niente».
Un messaggio che ha commosso l’America, da sempre affezionata ai suoi soldati. Li considera, in fondo, i suoi veri eroi. Ama raccontarne le gesta, onorarne le storie. Ma quellache è capitata in sorte a Lou è stata perfida: era alla sua ultima missione. Presto sarebbe tornato negli Usa, per diventare un addestratore di nuove reclute dei Navy SEALs, e riunirsi alla moglie e ai due figli. Insomma, ce l’aveva quasi fatta, dopo una carriera di 25 anni, missioni in Afghanistan e in Iraq, e infinite decorazioni: Cinque Stelle di Bronzo, con la decorazione “V”, per Valore in combattimento, un Cuore di Porpora, per chi riceve ferite (e dimostra il coraggio), nastri per i combattimenti e medaglie per le sue spedizioni.
«Era un tipo leggendario», spiega Darrell Logan, un suo compagno nei Navy. «In fondo, è bruciato tutto d’un soffio. Quelli come lui non possono finire sbiadendo lentamente». Lou aveva un’energia vitale trascinante, che lo faceva sorridere di ogni cosa, che gli insegnava a frenare la paura, e quasi anzi a riderne. Scherzava sempre, quando si gettava da un elicottero in campo nemico, ma «anche quando doveva sgridare i bambini», racconta Anya, sua moglie da almeno dodici anni, da quando si erano sposati su una spiaggia di Santa Barbara. «Non ci riusciva: si doveva voltare, per non scoppiare a ridere di fronte a loro, e poi anche loro ridevano», aggiunge. Si erano conosciuti, molti anni prima, a una cerimonia per la preparazione di una nuova nave da guerra a Savannah. Lui si era paracadutato, insieme a tutta la squadra. A lei non sembrò vero. Si innamorò subito, travolta dal fascino, dall’energia di Lou, e dal suo status di eroe americano.
Che, però, era nato in Quebec, in Canada, nel 1967. Figlio di medico, si trasferì con la famiglia negli Usa quando era ancora un bambino. Parlava inglese fuori, e francese in casa. Quando aveva 9 anni, il padre morì, e si dovette trasferire in California. Qui sfuggiva da scuola per buttarsi in ogni sport possibile, in voga negli anni ’80: lo skateboard, il surf, la pesca, le immersioni, le arrampicate. Era atletico e amava le avventure. Poi, a nemmeno 20 anni, arrivò, improvviso, l’arruolamento. Come racconta la moglie, Lou stava scappando dalla security di un negozio, «doveva aver combinato qualche guaio». E, per nascondersi, si infilò in un ufficio di reclutamento della marina. Ma il rimedio, forse, fu peggio del male. Uno degli uomini dell’ufficio gli propose un patto: «Tu ti arruoli, e noi non ti riconsegniamo agli agenti», avrebbe detto. Lou accettò, fu preso, e in poco tempo emerse, tra tutti, per bravura e coraggio.
«Era il migliore, un fuoriclasse. Valeva oro, letteralmente e figuratamente», spiega Sean Pybus, capo del Naval Special Warfare Command. Lo aveva visto mentre, sotto la bandiera americana, si lanciava nelle guerre di tutto il mondo. In tanti avevano seguito i suoi ordini, e avevano vinto la paura grazie al suo coraggio. Era un eroe da leggenda, Lou Langlais, l’atleta, il coraggioso. Uno di cui raccontare la storia agli amici, alla famiglia quando sarebbero tornati a casa, lasciando, se dio vuole, l’Afghanistan. Ma la storia di Lou, che scalava montagne e si gettava dagli elicotteri, che rideva della paura e ha ucciso bin Laden, è finita male. E allora, questa volta, dobbiamo raccontarla noi. Lo abbiamo fatto anche per raccontare, di sfuggita, di quel pezzo d’America che crede ancora negli eroi, nel bene e nel male, nel coraggio, nella vittoria anche a costo della morte. E che poi, alla fine, ammette che la guerra, sì, «sembra una cosa fica, ma non lo è. Non lo è proprio per niente».