MADRID – Fuori imperversa il secondo giorno di sciopero degli insegnanti di Madrid contro i tagli all’educazione della destra al governo della Regione. Al Cogresso dei deputati, José Luis Rodriguez Zapatero dà l’addio “anticipato” alla Spagna, dopo due legislature, parlando durante l’ultima sessione di controllo del Governo da lui presieduta davanti ai deputati. Non è la fine della legislatura, visto che la sessione si concluderà ufficialmente domani, con il voto degli ultimi otto progetti di legge e due drecreti reali, ma sì l’ultima occasione di vedere il presidente socialista in un faccia a faccia con il suo rivale.
Piovono rimproveri da parte dal numero uno del Partito popolare, Mariano Rajoy, all’indirizzo del dimissionario Zapatero, fino a un anno e mezzo fa immagine del boom economico iberico adesso “responsabile” cosciente della crisi economica del suo Paese, “nel quale”, però – dice – “ripongo tutta la mia fiducia”.
E nell’autunno ancora caldo della crisi, Rajoy non gliene risparmia una al presidente dei diritti e dell’uguaglianza sociale: “Lei lascia un’eredità avvelenata” – dice il leader del PP – con il tono compiaciuto di chi parla già da capo del prossimo esecutivo, in qualità cioè di colui cui spetta l’oneroso compito di raccogliere quell’eredità.
Da parte sua Zapatero, protagonista di una lunga carriera parlamentare da deputato e presidente del Governo, ribatte da vero combattente e ad una “dura lotta” si riferisce nel suo discorso.
Dura lotta contro la crisi, quella che si ci aspetta da un vero leader, e sottilmente invia una frecciatina a Rajoy: “Auguro alla Spagna un leader capace di dare fiducia. La maggioranza dei cittadini vuole politici responsabili, leaders, che siano in grado di proporre qualcosa, non soltanto di attaccare, e che diano fiducia e un futuro alla Spagna” – conclude l’offensiva Zapatero, visibilmente toccato dall’attacco del rivale. Ma questo momento di sfogo arriva alla fine.
L’ultima sessione di controllo dell’era Zapatero è in primo luogo il momento scelto dal socialista per affermare di “sentirsi responsabile del tasso di disoccupazione”. E per questo motivo – ha assicurato – “non vado via soddisfatto” dalla presidenza del Governo.
Ma a niente è servito. L’umiltà dell’oppositore ormai è vana. Sono lontani i momenti in cui si sentiva Rajoy titubare in Congresso davanti al presidente socialista. Quello che ha fatto la sua apparizione oggi nell’addio del suo rivale è stato il Rajoy della campagna elettorale, che si è spinto al limite di proporre una lista delle buone qualità di un governante, che lui evidentemente pensa di incarnare, anticipando quasi il mandato che gli spagnoli saranno chiamati a dargli (o no), il 20 di novembre. Al primo posto delle virtù di un buon governo Rajoy ha posto il dono della “diagnosi corretta e della sincerità”, al secondo “un piano non improvvisato”, al terzo “aspettative corrette”, al quarto: “proposte ragionevoli”, al quinto: “non spendere più di quanto ci si possa permettere”, al sesto: “fare riforme necessarie e all’ultimo ma non ultimo “non governare attraverso i decreti”.
Un addio veloce, al contrario del rivale, è stato quello di Zapatero che proprio ieri in occasione di un atto istituzionale aveva dichiarato di non sentirsi solo come Adolfo Suarez, il presidente della transizione spagnola (dimissionario “costretto” che nel giorno della nomina del suo successore restò seduto e senza fare una piega, stoicamente, mentre i golpisti prendevano l’emiciclo del Congresso a suon di spari).
E non si deve essere sentito solo neanche nell’addio formale di oggi, visto lo scroscio di applausi che ha seguito il suo discorso, e l’omaggio del suo intero partito, in piedi in quello stesso emiciclo per ringraziarlo. Non si è sottratto alle sue responsabilità il presidente socialista, ma ha anche ricordato che “siamo di fronte ad una crisi globale” e che lui c’ha provato ad affrontarla con “responsabilità” per garantire il consolidamento fiscale ed “evitare mali peggiori”.
Non se ne va nè solo, nè senza averci provato Zapatero, insomma. E ha scelto di fissare le elezioni a novembre per avere giusto il tempo di fare quelle riforme strutturali – quella del lavoro e quella delle pensioni -, che non soltanto gli chiedeva l’Europa, ma che parte del suo elettorato – almeno quel ceto medio e imprenditoriale cui nell’ultima legislatura Zapatero ha stretto non poche volte la mano – gli chiedeva da tempo.
Ma se ne va comunque lasciando quei “due milioni e mezzo di disoccupati in più, 250.000 milioni in più di debito, redditi ai livelli del 2004, tagli sociali e una grande sfiducia nell’economia spagnola”, come ha sottolineato, dati alla mano, Rajoy.
La grande domanda di questo addio, che poi sarà anche un addio alla politica (così ha annunciato già nel momento in cui ha indetto le elezioni anticípate il presidente uscente) l’ha formulata lo stesso Zapatero quando ha ricordato che “durante la sua prima legislatura la Spagna era arrivata al tasso di disoccupazione più basso che avesse mai avuto. Ci sarà una ragione che spieghi le difficoltà che abbiamo avuto in questa legislatura…”
I socialisti pensano che la ragione sia la crisi economica, i popolari che sia colpa del modo in cui Zapatero non ha saputo tener testa alla crisi, o meglio, il ritardo con cui ha provato a porvi rimedio.
Chi crede alla prima versione, anche se con tutte le sfumature del caso, probabilmente il 20 novembre voterà per il successore di Zaptero, Alfredo Perez Rubalcaba, che si è già portato avanti con il lavoro spingendo affinché il governo uscente approvasse la patrimoniale sui redditi alti: giusto in corner, per riprendersi i voti del ceto medio-basso.
Chi pensa che non sia stata la crisi globale, ma la cattiva gestione socialista a generare un effetto a catena che ha portato la Spagna al punto in cui si trova oggi, voterà per i popolari e per i comandamenti di Mariano Rajoy.
Sono in molti a scommettere che questo ultimo gruppo rappresenti la maggioranza assoluta degli spagnoli, quella stessa che i popolari prevedono di aggiudicarsi alle elezioni del 20 novembre.
Ad oggi, giorno dell’addio all’era di Zapatero, a parte questa quasi certezza che gira nei sondaggi e nelle parole dei popolari, ciò che è chiaro è che Rajoy ancora non ha iniziato neanche a stilare le liste dei candidati, nè tantomeno a spiegare chiaramente quel famoso piano contro la crisi che da almeno un anno e mezzo dice di avere in tasca.