A Bologna, infiltrato in un cantiere con i clandestini “a nero”

A Bologna, infiltrato in un cantiere con i clandestini “a nero”

BOLOGNA – “Buongiorno, sto cercando lavoro come muratore. L’Università mi paga poco”. Con queste parole Mimmo Perrotta, origini lucane ma residente in Emilia, si presenta in un cantiere edile. «Ho mentito solo a metà», ci spiega. «La borsa per il dottorato di ricerca che mi davano a Padova non era granché, ma la mia intenzione era quella di infiltrarmi e studiare le relazioni tra operai stranieri e italiani».

Nei due mesi di permanenza, Perrotta rimarrà l’unico operaio italiano ma scoprirà il paradosso dei clandestini che costruiscono il lusso. Viene assunto in nero e suscita diffidenza: per i padroni è una spia del sindacato, per i colleghi una spia del padrone. I suoi colleghi sono tutti rumeni, pakistani e tunisini. L’80% era senza permesso di soggiorno. Isole di marginalità in zone caratterizzate da legalità e sindacalizzazione? «Macché – ci dice Perrotta -. Stavamo costruendo uffici di lusso, all’americana, con tanto di palestra annessa. Abbiamo ristrutturato una grande villa, a quattro piani, appena fuori dal centro di Bologna, dove la strada comincia a salire verso i colli. Ricordo il panorama che si vedeva dal cortile della villa: i tetti rossi del centro, San Petronio, le due torri, in lontananza i palazzoni della Fiera».

Poi, all’improvviso, un’auto della polizia entra dal cancello del cantiere. «Nel giro di pochi secondi tutti i miei colleghi in nero sono letteralmente scomparsi, nascosti in luoghi del cantiere inaccessibili, in attesa che la polizia uscisse. Si trattava di un falso allarme: l’automobile è entrata e dopo pochi secondi ha fatto inversione ed è andata via». 

La reazione è fulminea, anche perché il padrone rischia una multa, lo straniero senza documenti il rimpatrio. «Siamo in garage con Gabriel, a prendere delle tavole. Arriva correndo Marian, con gli occhi pieni di paura, seguito da tutti gli altri, e dice: «È entrata la polizia». Alcuni corrono verso la sala dove ci sono gli impianti dell’aria condizionata. Paul scompare da qualchealtra parte, Leonard entra in garage. Vado su, trovo Shamrez, l’operaio pakistano regolare, e gli chiedo se ha visto la macchina della polizia, lui dice di no, col solito tono disinteressato». «Tranquilli», dice il capo agli operai. «Se c’è qualcosa, vengono i carabinieri e non la polizia. E comunque non vengono neanche quelli», facendo intendere che ha delle garanzie.

Su questa paura si è costruito il “miracolo” dell’espansione edilizia da metà anni ’90 fino al 2008, quando i primi segni della crisi diventano visibili. «La legge sull’immigrazione» – ci spiega il ricercatore – «non serve a gestire i “flussi d’ingresso” ma a “regolare” il mercato del lavoro. Il risultato sono state centinaia di migliaia di braccia ricattabili, dunque a basso costo». Nel 2007, due anni dopo la ricerca sul campo, la Romania entra nell’Unione Europea. Quell’anno sono emersi 300 mila lavoratori negli elenchi dell’Inps, dei quali 67 mila in edilizia.

C’è solo una cosa, tuttavia, più importante della nazionalità. La specializzazione. «Sono l’ultimo arrivato, destinato quindi a svolgere mansioni non specializzate», ricorda Perrotta. «Rompere muri col martello pneumatico o con mazzetta e scalpello; preparare la calce e il cemento con la betoniera; disarmare i pannelli della carpenteria; fare le pulizie nei posti dove si è lavorato; trasportare materiali; persino andare al bar a comprare le birre per tutti».

Un rumeno privo di permesso di soggiorno, ma specializzato, prendeva invece 70 euro al giorno e poteva permettersi di dire: «Capo, domani non vengo, ho un altro lavoro da 100 euro». Non potevano sostituirlo e quindi nessuno gli diceva niente.

Il rapporto tra proprietari italiani e operai rumeni è molto complesso. Gli operai orientali si autorappresentano – nelle interviste formali – come grandi lavoratori e si contrappongono ai pigri italiani “capaci solo di stare in ufficio”. «Giro come un lupo per trovare lavoro», ci dice un edile dell’Est. Nella vita reale del cantiere, al nuovo arrivato spiegano subito che «qui si lavora lento». Non è una prerogativa degli stranieri, da sempre la comunità operaia prova a negoziare ritmi e produttività e commisurarla alla paga. «Se mi pagasse 100 euro metterei a bolla l’impalcatura, mi paga 50 e quindi la metto al 90%», dice un operaio.

La slealtà nei confronti dell’impresa è giustificata dalla consapevolezza dello sfruttamento. «Non si sentono a casa né in Italia, né nella ditta in cui lavorano», ci spiega lo studioso. I capi sono chiamati “cani”. C’è una costante ricerca di un lavoro meglio pagato, anche di poco. L’azienda paga i vantaggi della manodopera a basso costo con un imponente turnover. In Italia sono un quarto del totale degli immigrati presenti sul territorio (un milione di persone, di cui 100mila in edilizia) e sono pronti ad andar via appena concluso il progetto migratorio, quasi sempre realizzare l’investimento programmato in Romania (costruire la casa, fare studiare i figli).

Vivere quotidianamente nel cantiere permette di conoscere i pregiudizi reciproci. Cosa pensano i rumeni degli italiani? Sono drogati e sessualmente pervertiti. E anche pigri (“Adesso hai visto quanto facciamo fatica, quanto lavoriamo noi immigrati, noi rumeni, per costruire le case a voi italiani, che non lavorate per niente, o state in ufficio?”) e sporchi (“Per l’80% siete dei drogati o punkabbestia”), idea derivata dalla variopinta popolazione studentesca che affolla il centro bolognese.

La conoscenza diretta, ovviamente, è un buon antidoto ai luoghi comuni. «Se io vivo tutti i giorni accanto a uno straniero è mio fratello, rischiamo insieme la vita e condividiamo il lavoro», ci dice un operaio di Messina impegnato nei lavori della locale autostrada. «Ma se un rumeno accetta di lavorare per un salario minore mette a rischio i diritti di tutti». La ricerca di Perrotta affronta anche questo nodo centrale e prova a smontare due luoghi comuni, uno di destra e uno di sinistra. “Vengono qui e rubano il lavoro” contrapposto a “fanno i lavori che non vogliamo più fare”.

In realtà, ci spiega il ricercatore, si tratta di un circolo vizioso per cui la legge sull’immigrazione non contrasta l’irregolarità ma la crea (è impossibile l’ingresso regolare sia la successiva regolarizzazione), con effetti devastanti sul mercato del lavoro (salari bassi, ritmi intensi, impossibilità di contrattare condizioni migliori, orari di lavoro incerti, condizioni di sicurezza drammatiche). Si creano così le condizioni che escludono i lavoratori italiani. Ci sono numeri impressionanti sull’insicurezza nei cantieri, “solo nel 2007 quaranta rumeni sono morti sul lavoro”. Ecco perché la regolarità degli stranieri è un interesse generale, soprattutto degli italiani, altrimenti il “lavoro clandestino” peggiora le condizioni di tutti.

Perrotta ha raccolto la sua esperienza nel libro Vite in cantiere pubblicato da “Il mulino”. Aggiunge che – oltre all’azienda che l’aveva assunto – operavano in subappalto elettricisti (provenienti da Ferrara), gessisti (da Bergamo), fontanieri (bolognesi), marmisti (campani), la ditta che ha fatto la facciata (da Torino), quella che gestisce gru e ruspe (Bologna). Una giungla ai confini della legalità (e spesso oltre): una delle aziende aveva un libro paga regolare, ma gli operai lavoravano in un altro cantiere. Il subappalto a Bologna funziona con lo stesso meccanismo del caporalato in agricoltura al Sud: usa il lavoratore irregolare in nero per abbassare i costi. L’azienda che dà l’appalto principale dovrebbe controllare, ma non avviene quasi mai. E tutto rimane coperto da connivenze e silenzi. 

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