La politica nelle banche non ha mai dato grandi risultati. Ma a guardare quel che succede alla Carim, la Cassa di risparmio di Rimini, non ha di che andare orgogliosa nemmeno la cosiddetta società civile. Gli uomini che in questi anni hanno guidato la Fondazione Carim e la controllata Banca Carim hanno condotto l’una e l’altra in una situazione pericolosa. La banca è commissariata dalle autorità di vigilanza per gravi irregolarità e perdite, la fondazione rischia un pesante abbattimento del patrimonio, e già quest’anno è rimasta senza dividendi.
Una situazione che chiama in causa la responsabilità delle istituzioni, associazioni, categorie professionali, imprese e lobby, che dai primi anni ’90 a oggi hanno espresso gli amministratori della fondazione e, a cascata, della banca. Una responsabilità collettiva che tocca i sindaci della città di Rimini e dei comuni limitrofi, il presidente della Provincia, la Camera di Commercio di Rimini, la Curia di Rimini; e poi le diverse associazioni di categoria (albergatori, artigiani, commercianti, agricoltori), Confindustria Rimini su tutte, oltre all’Associazione Meeting per l’amicizia tra i popoli, che fa capo al movimento ecclesiale Comunione e Liberazione. A turno sono stati coinvolti anche gli ordini professionali locali degli architetti, degli avvocati, dei commercialisti, degli ingegneri, dei medici chirurghi e odontoiatri, dei geometri e persino il Consiglio notarile di Forlì e Rimini. Non si può dire che siano molti i “corpi intermedi” della società civile rimasti fuori dalle scelte della Fondazione Carim e della banca che questa controlla.
Per statuto, tutti questi enti, associazioni e categorie professionali hanno titolo infatti a nominare metà del consiglio generale (9 su 18 componenti), l’organo di indirizzo della fondazione che elegge presidente e consiglio di amministrazione. Ma per capire come si sia potuto produrre il corto circuito politico-economico-sociale culminato nel commissariamento della Banca Carim bisogna tenere conto anche del fatto che l’altra metà del consiglio generale della fondazione è il frutto di un meccanismo oligarchico che poggia sulla cosiddetta “Assemblea dei soci”. Il nome non deve trarre in inganno: si tratta piuttosto di una sorta di consiglio degli optimati che può contare fino a un massimo di 100 soci, «espressione e garanzia della continuità ideale con le funzioni e gli scopi di carattere sociale che furono propri, fin dal 1840, della Cassa di Risparmio di Rimini». Un organismo che perpetua per cooptazione di «persone fisiche di specchiata probità», ritenute degne di assere ammesse. A giudizio della stessa assemblea. Il risultato è che oggi, nel consiglio di amministrazione della fondazione siedono il presidente Massimo Pasquinelli, avvocato, un passato da consigliere comunale per la Democrazia Cristiana, di cui è stato anche segretario cittadino, ciellino di primissimo piano con ottimi agganci in Curia; il vice Bruno Vernocchi, concessionario di auto, espresso da Confindustria; Leonardo Cagnoli, primario all’ospedale di Rimini, membro del Club degli Ambasciatori della Riviera di Rimini del Convention Bureau di Rimini, Matteo Guaitoli, area Pdl (nel 2010 sfumò una sua candidatura a sindaco); Gianandrea Polazzi, avvocato, di cui è nota la passione per la musica classica e i legami con la Curia; Giovanni Protti, già segretario della Margherita di Rimini, e Renzo Ticchi, già presidente del Rotary Club di Rimini.
Proprio il Rotary è il fattor comune di molti dei consiglieri di amministrazione e dei sindaci della banca, alla vigilia del commissariamento. Giuliano Ioni, prima presidente del colleggio sindacale e poi presidente di Banca Carim, è stato consigliere del Rotary di Rimini. Tra i soci dello stesso club c’è anche Vernocchi che dopo una lunga permanenza in fondazione da consigliere è stato vicepresidente della banca dal 2008 al commissariamento, salvo poi tornare in fondazione da vicepresidente. Un altro rotariano è l’avvocato Gianluca Spigolon, candidato di Forza Italia nel 2001 a sindaco di Rimini, e più di recente consigliere della Banca Carim. Come pure Fabio Bonori, anche lui “dimissionato” dall’intervento congiunto del ministero dell’Economia e della Banca d’Italia. Coincidenze? Forse. Già nell’aprile 2010 un articolo della Voce di Rimini puntava il dito contro la “lobby rotariana che comanda ovunque”, sottolineando che “metà della fondazione è in mano agli affiliati al club” (leggi il servizio). In effetti, accanto a un ciellino di ferro come l’imprenditore Vincenzo Leardini, ramo alberghi & ristorazione, che gestisce in esclusiva l’incantevole Villa Mattioli, di proprietà della fondazione, i rotariani fanno la parte del leone. Non solo quelli associati al club di Rimini città. L’ex consigliere della banca Attilio Battarra, che fu direttore di Confcommercio negli anni ’90, è stato per esempio presidente del Rotary Club di Riccione e Cattolica 2004-2005. Ancora più in là nel tempo è la presidenza del Rotary di Riccione e Cattolica di Giacomo Mantellato: ma anche lui è poi finito nel cda di Banca Carim. Né va tralasciato il direttore generale Alberto Martini, andato in pensione poche settimane dopo l’arrivo dei commissari: associato, anche lui, al Rotary club di Rimini Riviera. O anche i due sindaci Marcello Pagliacci e Fabio Scala, o l’ex storico presidente della fondazione Luciano Chicchi.
Una partecipazione così ecumenica da parte di politica e società civile alle sorti della Carim affonda le radici nella storia della città. Dire Carim a Rimini vuol dire evocare la prosperità costruita nel secondo dopoguerra sulla riviera romagnola. La Cassa di risparmio è stato il volano dello sviluppo economico dagli anni ’50 in avanti di Rimini e del suo circondario: il naturale polmone finanziario di chiunque volesse mettersi in affari. A vagh a tol i sold da Franci, vado a prendere i soldi da Franci, era il modo di dire dei riminesi doc per esprimere l’intenzione di chiedere un finanziamento alla Cassa di risparmio. «Era talmente radicata nel dna dei riminesi che la Cassa era per tutti “il Franci”, l’allora capo dei crediti – ricorda Giuseppe Taddia, segretario della Fabi (il sindacato autonomo dei bancari) di Rimini –. La Cassa di risparmio ha aiutato la crescita della città e questo fa capire perché i riminesi siano intenzionati a fare di tutto per mantenere la proprietà locale di Banca Carim». Non sarà però un compito da ragazzi.
A fine settembre 2010 la banca è stata sottoposta ad amministrazione straordinaria: commissariata dalla Banca d’Italia per gravi irregolarità nell’amministrazione, gravi perdite patrimoniali e inadempienze nell’attività di direzione della controllata estera Credito Industriale Sammarinese (Cis). Di recente, inoltre, è stata disposta la proroga del commissariamento. Al momento lo stato di salute dell’istituto è ignoto: durante l’amministrazione straordinaria non vengono fornite informazioni all’esterno. Perciò, a marzo di quest’anno, Standard and Poor’s ha sospeso il rating, formulando tuttavia un’ultima valutazione che conferma quanto già espresso a novembre 2010: rating di controparte BB-/B, con prospettive negative. Secondo ipotesi ventilate dalla Fondazione Carim, che si avvale dell’assistenza di Mediobanca, per ritornare alla normalità sarebbe necessario un aumento di capitale di 120 milioni di euro. Per alcuni osservatori, però, si tratterebbe di una stima per difetto.
Fonti vicine alla vicenda suggeriscono che la sottocapitalizzazione dello storico istituto riminese sia almeno di 150 milioni di euro. Le perdite gestionali, dai 30,8 milioni di euro dichiarati nell’ultima semestrale approvata nel settembre 2010 poco prima del commissariamento, sarebbero passate a più di 100 milioni di euro. In netto aumento sarebbero anche i crediti deteriorati, che già a fine 2009 (ultimo bilancio approvato) erano saliti a 436,1 milioni di euro contro i 323 dell’esercizio precedente. Al 30 giugno 2010 – ultimo dato ufficiale – l’incremento del rapporto tra sofferenze e impieghi, è conseguentemente passato al 4,33 per cento. Sulla controllata Credito Industriale Sammarinese si hanno invece notizie ufficiali: il 2010 si è chiuso con una perdita di 50 milioni di euro, che ha praticamente dimezzato il patrimonio, anche se il coefficiente di solvibilità resta elevato (22,88%).
Sui conti deteriorati pesa anche, fa notare un noto imprenditore locale che preferisce rimanere anonimo, «la disinvoltura con cui sono stati concessi affidamenti: un fiume di soldi che in parte non tonerà più nelle casse della banca, visto che in non pochi casi si tratta di imprenditori che da tempo non navigano in buone acque». Il caso più emblematico, citato pure nella relazione ispettiva di Bankitalia, è quello del gruppo Antonio Merloni, a cui nel 2007 viene erogato un affidamento di 15 milioni, sulla base di una garanzia rappresentata da un terreno stimato 27,5 milioni di euro; peccato che il lotto al tempo era già stato espropriato. Il consiglio di amministrazione se ne accorge tardivamente, solo nel 2010, peraltro dopo che nel 2009 il gruppo Merloni viene dichiarato insolvente. Altri soldi sarebbero stati erogati ad Aldo Gino Foschi, noto imprenditore locale, proprietario fino a pochi anni fa di un vero e proprio impero alberghiero, ora in gran parte in vendita. Qualche anno fa Foschi acquisì notorietà nazionale per aver offerto ai 39 dipendenti di una sua società un contratto che prevedeva 60 ore di lavoro settimanali. Su Foschi, comunque, la Carim ha chiuso un occhio non solo sui conti delle sue attività ma soprattutto sul dato anagrafico: all’epoca del finanziamento l’imprenditore compiva 85 anni.
Tra i beneficiari di generose linee di credito risulta l’attuale vicepresidente della fondazione Vernocchi, concessionario Ford, Mazda e Land Rover a Rimini, San Marino e Pesaro. Nelle esposizioni creditizie della Carim rientra anche il gruppo di moda Aeffe, che ha oggi un debito di 103 milioni e negli esercizi 2009 e 2010 ha messo assieme 32,6 milioni di perdite. Carim pare particolarmente esposta pure nei confronti di Franco Albanesi, noto albergatore, area Pdl, già candidato nel 2004 con il Nuovo Psi alla presidenza della Provincia (in lista c’era allora anche l’amico Foschi). A gennaio di quest’anno Albanesi è balzato agli onori della cronaca nazionale per aver lanciato la “tariffa bunga-bunga” in concomitanza dell’arrivo a Rimini di Ruby Rubacuori, la “nipote di Mubarak” nella versione del premier Berlusconi.
Ma oltre alle numerose criticità nella conduzione dell’operatività della banca, nel mirino di Bankitalia e dei pubblici ministeri sono finiti i rapporti di quest’ultima con la controllata Credito Industriale Sammarinese (Cis). La raccolta complessiva del Cis è passata dai 931 milioni del 2008 a 493 milioni del 2010. È l’effetto dello scudo fiscale, anche se gran parte dei 500 milioni rimpatriati è tornata nelle casse di Banca Carim. Più di un analista indica nelle crescenti difficoltà del Cis una delle ragioni del tracollo della Cassa di Risparmio di Rimini. Ma è un argomento che non ha trovato ascolto nel cda della Fondazione Carim, titolare del 71% della Carim e dunque azionista indiretto del Cis. Il presidente dell’ente, Pasquinelli, ha ribadito che la controllata sammarinese non sarà venduta.
D’altra parte, sono storicamente stretti i legami tra Rimini, le sue banche e i suoi imprenditori e la Repubblica del Titano, luogo che fino a poco tempo fa era un paradiso fiscale indisturbato, con 12 banche e circa 40 finanziarie. Poco altro in termini di tessuto industriale. Ciò nonostante, da diversi anni San Marino ospita una sede estera della Compagnia delle Opere, braccio economico di Comunione e Liberazione. Quest’ultima pare sia così influente da aver “espresso” il vescovo della città-stato: si tratta di Luigi Negri, uno dei primi allievi di don Luigi Giussani al liceo Berchet di Milano e tra coloro che tennero a battesimo la nascita di Comunione e Liberazione, del cui consiglio internazionale è tuttora membro.
In un clima di grande confusione organizzativa, come denunciato nei giorni scorsi dai sindacati di settore, stenta a decollare il piano di ricapitalizzazione messo a punto dalla Fondazione e condiviso con le associazioni imprenditoriali riminesi: l’obiettivo è quello di mantenere l’autonomia della Carim e il controllo in mani riminesi. Mentre starebbe per essere perfezionata la costituzione di un consorzio di garanzia di cui farebbero parte le Casse di risparmio di Cesena e Ravenna, quella di Ferrara, Imola, Cento e la Popolare della Valconca, non è chiaro quale sarà l’orientamento degli oltre 7 mila piccoli azionisti, che detengono il 29% delle azioni.
Intanto Confindustria Rimini pare abbia messo assieme una cordata di una ventina di imprenditori disponibili a investire fino a 40 milioni. Tra questi spiccano, secondo fonti confindenziali interne alla banca, i nomi del presidente Maurizio Focchi, dell’industriale del mobile Luigi Valentini e di Manlio Maggioli, patron dell’omonimo gruppo attivo nell’editoria professionale, attuale presidente della Camera di Commercio. Della partita sarebbero anche Adriano Aureli e Giovanni Gemmani, esponenti della Scm Group come pure Alfredo Aureli, che a marzo 2010 si è dimesso polemicamente dalla presidenza della Fondazione, dopo appena due anni, accusando «i tanti, troppi consiglieri che la loro libertà l’hanno persa, facendosi condizionare da interessi e lobby». Accuse che sulla costa romagnola erano state lette come rivolte all’allora vicepresidente Pasquinelli (destinato a prenderne il posto) e al suo predecessore Chicchi, per anni il grande dominus della fondazione. La cifra messa sul piatto dagli imprenditori potrebbe certamente tornare utile per ridimensionare il peso della fondazione nella futura governance di Banca Carim, ma è insufficiente per salvare l’istituto bancario dal baratro.
Quanto alla fondazione, la situazione non è migliore. Gran parte dei mezzi patrimoniali dell’ente presieduto da Pasquinelli sono rappresentati proprio dalla quota del 71% nella banca. La partecipazione è valutata circa 105 milioni in bilancio e rappresenta quasi il 70% degli attivi finanziari e il 60% del totale attivo. Le erogazioni della banca per le finalità istituzionali (arte, cultura, educazione, assitenza, volontariato) dipendono quasi esclusivamente dai dividendi della controllata bancaria. Nel 2010 su 6,8 milioni di introiti quasi l’80% è dato dai dividendi distribuiti dalla banca controllata. Per la fondazione, insomma, la débâcle è doppia: la perdita di valore della quota e la temporanea perdita dei dividendi, che ne compromette la capacità di proseguire le finalità istituzionali di sostegno al territorio e alla comunità riminesi. A questo si aggiunge un interrogativo a cui Pasquinelli non ha ancora dato una risposta convincente: dove troverà i soldi per sostenere l’aumento di capitale della banca? La Fondazione Carim non ha infatti grandi risorse da investire per ricapitalizzare la banca. Ha però dichiarato che intende partecipare all’aumento di capitale «con una somma non inferiore a 20 milioni di euro, ricorrendo, se necessario, anche a finanziamenti esterni».
Per evitare di perdere il controllo della banca, che finora è l’unico punto fermo degli scenari ipotizzati, l’idea che circola è di ridurre la partecipazione al 50,1%, vendendo il rimanente 20-21% nella speranza di incassare almeno 40 milioni. Il che implicherebbe una valutazione complessiva dell’istituto di 200 milioni: una stima fin troppo ottimistica. Alla somma così incassata, la fondazione aggiungerebbe altri 20 milioni, da prendere a debito, per sottoscrivere una metà dell’aumento da 120 milioni. Questo ipotetico piano, tanto ambizioso quanto rischioso, difetta tuttavia della prudenza necessaria verso il patrimonio comune accumulato pazientemente da generazioni di riminesi. Per di più in una stagione in cui l’investimento nel settore bancario non sembra promettere grandi soddisfazioni, e richiede impegni patrimoniali crescenti. Se le cose non andassero per il verso giusto, la capacità futura della Fondazione Carim di adempiere ai suoi compiti istituzionali (sostenere la cultura, il volontariato e il territorio) verrebbe definitivamente compromessa. In alternativa, Pasquinelli e le lobby che occupano la fondazione non hanno altra scelta che fare un passo indietro e accettare che il controllo di Banca Carim passi a un gruppo bancario interessato a radicarsi in Romagna, rassegnandosi al ruolo di investitore istituzionale interessato più alla redditività e meno alle poltrone e ai giochi di potere.
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