«Camoranesi, come mai lei non canta l’inno di Mameli?» La domanda, l’italo-argentino con una lunga carriera nella Juventus, se la sentì ripetere dal primo momento in cui vestì la casacca della nazionale italiana. Per tre anni per la precisione. All’ennesima volta, si stufò. Alla (poca) fantasiosa domanda di un giornalista del quotidiano argentino Olè, rispose: «Da tre anni i giornalisti italiani mi rompono i c… con il loro inno italiano. All’inizio dicevo che da dieci non cantavo quello argentino, figuriamoci quello italiano».
Mauro German Camoranesi è fino ad oggi l’oriundo con più presenze con la maglia della nazionale. Maglia che in questi giorni sta indossando anche Pablo Daniel Osvaldo. Con Camoranesi condivide la nascita oltreoceano e lo stare al centro della polemica per via di quelle origini. L’attaccante della Roma è alla sua prima convocazione nella nazionale maggiore (dopo aver fatto parte della Under 21): può così permettersi risposte più diplomatiche del collega. Stavolta la domanda non arriva da un giornalista. A dire il vero non si tratta nemmeno di una domanda. Ma di una affermazione. Netta. «La convocazione di Osvaldo nella nazionale italiana certifica il fallimento definitivo della politica della Figc. Il progetto di Cesare Prandelli, che avrebbe dovuto portare i nostri giovani talenti a vestire la maglia azzurra, si sta trasformando in una pensione per oriundi». Pensieri e parole di Davide Cavallotto, deputato della Lega Nord.
Osvaldo è in questi giorni impegnato con il resto del gruppo azzurro nelle ultime due partite di qualificazione dell’Italia ai prossimi Europei, che si giocheranno l’estate prossima tra Polonia e Ucraina. Dal ritiro della nazionale di Coverciano, prima periferia di Firenze, il giocatore risponde pronto: «A me scappa da ridere. Ma so che questo signore ha criticato altri calciatori, soprattutto del Sud: mi sa che sono più italiano io di lui». Arrivano puntuali il sostegno della Federcalcio (tramite il suo presidente Giancarlo Abete: «Penso che il nostro Paese ha dimostrato di avere la capacità in tutti i settori di saper coniugare l’integrazione con l’identità, mi sembra che i problemi siano altri») e, soprattutto, la rettifica di Cavallotto. «Non ce l’ho con Osvaldo. Lui ha diritto a rispondere alla convocazione di Prandelli e ha diritto di sentirsi italiano così come ognuno di noi ha diritto a sentirsi italiano, padano o altro. Dico solo che la nazionale dovrebbe investire nei nostri giovani talenti»: questo il comunicato comparso già ieri sul sito personale del deputato leghista.
A discolpa di Cavallotto, c’è da dire che nel primo comunicato l’onorevole aveva aggiunto: «La convocazione di Ogbonna è da prendere a esempio». Non si può tacciare Cavallotto di razzismo. Al massimo di faziosità. Angelo Ogbonna, che gioca nel Torino, è nato a Cassino da giocatori nigeriani. E Cavallotto tifa per il Torino. Se la sua battaglia avesse uno slogan, potrebbe essere: “Il calcio italiano agli italiani”. Il 6 luglio scorso, dopo che la Federcalcio decise di aprire alla possibilità, per le squadre italiane, di avere in rosa due extracomunitari, dichiarò: «Come deputato della Lega Nord combatterò sempre al fianco di quei giovani atleti che, con il loro senso di appartenenza territoriale, lavorano duramente per cercare di ottenere grandi risultati con il loro club e la loro nazionale».
Nemmeno questa volta fu razzismo. Cavallotto motivò la dichiarazione riferendosi al fallimento dell’Italia al Mondiale sudafricano del 2010. Dopo l’eliminazione dell’Italia al primo turno, la Federcalcio mise il limite agli extracomunitari nel campionato italiano: da 2 a 1 per squadra. Nel luglio di quest’anno, la Federcalcio tornò sui propri passi: di nuovo 2 extracomunitari per squadra.
Extracomunitari e oriundi vengono messi da Cavallotto sullo stesso piano. Non è la prima volta che accade, in Italia. Gli oriundi hanno spesso recitato un ruolo di primo piano con la maglia azzurra. Non solo Camoranesi, che fu tra i 23 azzurri che sollevarono la Coppa del mondo in Germania nel 2006. La storia degli oriundi in nazionale affonda le radici negli anni Venti, quando in maglia azzurra finì l’italo-svizzero dell’Inter Ermanno Aebi, detto “Signorina”. Sarà nel decennio successivo che gli oriundi daranno una grossa mano alla nazionale. Nel 1934, sotto il regime mussoliniano, l’Italia vinse a Roma il suo primo Mondiale. Quella squadra, guidata dall’allenatore-giornalista piemontese Vittorio Pozzo, inaugurò la tradizione degli italo-sudamericani: gli argentini Raimundo Orsi, Luisito Monti e il “Corsaro nero” Enrique Guaita si fregiarono del titolo di campioni del mondo con l’Italia.
Ma dopo questo periodo d’oro, gli oriundi caddero in disgrazia. Accadde nel Mondiale del 1962, giocato in Cile. Il 2 giugno, nella capitale Santiago, si gioco la cosiddetta “Battaglia di Santiago”: con la complicità dell’arbitro inglese Aston, che espulse gli italiani David e Ferrin, gli Azzurri furono pure picchiati ferocemente dai cileni durante il match. Raccontano le cronache dell’epoca che alcuni cileni entravano duro sulle gambe degli oriundi in campo quel giorno urlando a ognuno di loro «Tradidor». Traditori. Era l’epoca degli “Angeli dalla faccia sporca”: gli argentini Maschio, Angelillo e Sivori. E del brasiliano Sormani, che il 13 ottobre 193 fu l’ultimo oriundo convocato prima di Camoranesi. Per la stampa e i quadri tecnici federali di allora, fu facile dare la colpa dell’uscita dal Mondiale agli oriundi.
Quattro anni dopo, l’Italia verrà eliminata al Mondiale in Inghilterra dalla Corea del Nord in maniera clamorosa. La colpa fu data ai troppi stranieri in serie A e le frontiere furono sbarrate. Nel 1970 l’Italia arrivò sì in finale, ma dovette aspettare 12 anni per vincere la Coppa del mondo. E poi altri 24 per rivedere un oriundo alzarla al cielo.