A costo di essere noioso e petulante, avendo a suo tempo invitato Gianfranco Fini a dimettersi dalla presidenza della Camera per dedicarsi anima e corpo alla battaglia politica, ma dopo la sua apparizione a Ballarò – alto il gradimento degli spettatori, triste lo spettacolo offerto agli italiani – mi tocca ripetermi. E dico dunque che chi occupa una carica di quel rango, la terza nella gerarchia dello Stato italiano, non può prestarsi, per nessuna ragione, a un tale svilimento della medesima, senza trarne le dovute conseguenze.
L’equilibrio dei poteri e il rispetto delle forme – essenziali in ogni democrazia – in Italia sono saltati da un pezzo, grazie soprattutto alle intemperanze e alle carnevalate di Berlusconi. Ma è un buon motivo per porsi sulla stessa scia, aggiungendo danno a danno, o per giustificare le proprie anomalie con quella originaria e inarrivabile del Cavaliere? Prendere le distanze da quest’ultimo dovrebbe significare, in prima battuta, non comportarsi alla sua stessa maniera. Se Berlusconi non ha senso dello Stato e delle istituzioni, se tratta la res publica come affare privato e come proprietà personale, il minimo richiesto dai suoi avversari sarebbe mantenere alto il decoro dei ruoli e delle posizioni che si rivestono nell’interesse pubblico e a nome di tutti.
E ciò soprattutto se, come nel caso di Fini, si ha una formazione politico-culturale – convenzionalmente definita di destra – che tiene all’ordine, al rigore, al rispetto delle competenze e delle funzioni, alle ritualità e al senso del dovere. Pretendersi uomini di Stato, al servizio della Repubblica, per poi ridursi a polemizzare con gli avversari in un talk-show nelle vesti di capo-partito, solo perché si sente avvicinarsi lo scontro elettorale, è una contraddizione troppo palese, che andrebbe onestamente risolta scegliendo un ruolo o l’altro.
Fini si è sin qui nascosto dietro un abile – ma inconsistente – formalismo: a suo giudizio basta svolgere con perizia il proprio mandato, applicando con scrupolo i regolamenti parlamentari, per poi concedersi qualunque tipo di esternazione: ivi compreso l’invito reiterato alle dimissioni – a dir poco inusuale – rivolto al Presidente del Consiglio. Ma il formalismo notarile è esattamente ciò che uccide le forme, svuotandole del loro contenuto essenziale. Non basta infatti essere super partes nella conduzione dei lavori parlamentari, che sono una questione interna al Palazzo, occorre anche dimostrare di esserlo agli occhi dell’opinione pubblica. Il problema non è avere idee e convinzioni proprie, ci mancherebbe, ma rischiare di anteporle (magari senza nemmeno rendersene conto) ai propri obblighi istituzionali.
Ma anche ammesso che sia possibile essere partigiani d’una causa e al tempo stesso inappuntabili difensori delle regole resta il fatto che a Ballarò Fini non si è limitato a fare politica e a dibattere con gli avversari a nome del Terzo Polo, si è anche lasciato andare ai trucchetti verbali tipici dei salotti televisivi, alle smorfie di disappunto che i cameramen prontamente enfatizzano, ai colpi bassi e alle insinuazioni velenose dalle quali, essendone stato vittima a suo tempo, uno come lui avrebbe dovuto rifuggire a qualunque costo. Si sarà pentito, mi chiedo, d’aver chiamato in causa in quel modo davvero poco elegante la moglie di Bossi? Una tale incombenza – lui che ha comunque ambizioni da leader e che in passato s’era distinto per aplomb e serietà, convogliando attenzioni trasversali e sincere sulla sua persona – non sarebbe stato meglio lasciarla a Bocchino o a qualche altro sottoposto?
A ragionare così si rischia, mi rendo conto, d’apparire moralisti o fuori dalla realtà. Visto l’infimo e drammatico livello cui è giunta la lotta politica come si può chiedere al solo Fini – proprio ora che siamo giunti, sembrerebbe, al redde rationem – di stare fuori dalla partita e, soprattutto, di astenersi dall’utilizzare ogni mezzo, ogni parola, ogni arma contro il suo più diretto antagonista, che di giocare scorretto non si è mai risparmiato? Tanto più che sono i suoi stessi elettori e sostenitori a chiedergli da mesi un impegno politico più diretto e attivo. Ma sono argomenti che, per quanto politicamente fondati, non giustificano in alcun modo la scelta finiana di giocare due parti così antitetiche in commedia. Forse nemmeno ci si rende più conto – proprio a causa del marasma istituzionale nel quale siamo piombati – del danno che certe scelte possono provocare in prospettiva, del precedente che si sta creando e che nel futuro – quando altri siederanno al vertice di Montecitorio – renderanno legittimo e normale utilizzare quella carica a fini politici e di parte. Sfugge la contraddizione nella quale si scade quando, volendo porre un freno al caos, si finisce con l’alimentarlo attraverso comportamenti e atteggiamenti speculari a quelli che si denunciano come irrituali ed estranei al bon ton costituzionale.
Fini, nei tre anni nei quali l’ho frequentato, ambiva a costruire una “destra nuova” alternativa – in primis sul piano dello stile politico – al populismo leghista-berlusconiano, intriso di pressapochismo e di violenza verbale, dal quale ha avuto il coraggio di prendere le distanze sino ad una traumatica rottura. Vederlo dare sulla voce alla Gelmini o battibeccare con Rotondi, sentirlo dire spiritosaggini o lanciare accuse al vetriolo, m’è parsa la prova più evidente – e amara – del fatto che Berlusconi magari cadrà, un giorno o l’altro, ma avendo nel frattempo plasmato a sua immagine e somiglianza l’intera scena politica, divenuta irrimediabilmente volgare e irrispettosa d’ogni più elementare senso del limite.
*Professore Ordinario all’Università di Perugia, direttore dell’Istituto di Politica