Due giorni di lavori nel cuore di Milano. E due ospiti attesi nella mattinata di oggi: Gianfranco Fini e Arianna Huffington. Ma nel più importante evento sulla comunicazione digitale in Italia, lo Iab Forum, può succedere che l’interazione a distanza dia qualche problema. La presenza del presidente della Camera era prevista per metà mattinata. Fini però non c’è. Anzi sì, in collegamento da Roma. «Come ben sapete, ieri al Governo c’è stato qualche problema e Fini è rimasto nella capitale», spiega alla platea Fabiano Lazzarini, general manager di Iab Italia. Brusio in sala. La webcam ad alta definizione inquadra un Fini che guarda in un punto imprecisato dell’aula. Muove nervosamente la penna. Dice qualcosa ma non si sente nulla. «Tutta colpa di Scilipoti», chiosa Antonello Piroso, giornalista di La7 invitato come moderatore. Il collegamento è ormai saltato. Lazzarini prova a salvare la situazione chiamando Fini ed avvicinando il cellulare ai microfoni. Ma questo collegamento non s’ha da fare, Scilipoti o no. Applausi poco convinti dal pubblico. The show must go on, e si va avanti.
L’episodio del mancato collegamento con Fini offre ai relatori un tappeto bello liscio come il velluto sul quale camminare. D’altronde, è uno dei temi del dibattito che riempie la mattinata, in attesa della Huffington: in Italia mancano le infrastrutture. Le autostrade sulle quali far correre la banda larga, strumento indispensabile in un panorama che punta (o meglio vorrebbe puntare) sul web. I dati sono chiari: dal 2006, le imprese che si affidano alla rete per fare pubblicità sono passate dal 4 all’14 per cento. Ma il nostro Paese ha bisogno di scoprire l’America per rendersi conto non solo del fatto che il futuro è internet, ma che questo futuro va approcciato lavorando fin dalle basi. Michele Boldrin, professore alla Washington University di Saint Louis, sbatte in faccia alla platea la dura verità: «Ci sono ragazzi in Italia che raccontano come straordinario l’aver imparato il Pascal in terza liceo. Il Pascal? E la clava non gliela diamo?»
La folla è in trepidazione per la Huffington, annunciata dal turbinio dei flash dei fotografi. Ma prima c’è Fini. Il presidente della Camera è riuscito a registrare un breve video. Dove parla della necessità di abbassare l’Iva per i prodotti culturali commercializzati in rete, senza specificare quando («Speriamo di discutere presto la proposta») e di snellire la macchina statale, attraverso la digitalizzazione della pubblica amministrazione («Ci farebbe risparmiare 40 miliardi di euro all’anno»). Anche in questo caso, quando e come si vedrà.
Arriva la Huffington. La prima domanda è d’obbligo: la sua piattaforma arriverà in Italia? Al Corriere della Sera aveva lasciato intendere di sì, aggiungendo che «la vostra è una realtà molto interessante con tante storie da raccontare. Basta solo pensare al vostro premier, Silvio Berlusconi». Arrianna Huffington conferma: dopo la Francia, toccherà all’Italia. «Vogliamo lanciare la versione italiana, dare voce a migliaia di cittadini italiani». E spiega che futuro ci attende. «Internet dominerà news e informazioni, ma la carta non sparirà. Vedo all’orizzonte un ibrido, dove convergeranno le tecnologie attuali e quelle sempre più moderne. Il giornalismo su internet dovrà attenersi alle regole classiche: accuratezza, onestà, ricerca della verità». Inoltre chiarisce che «La nuova via dell’entertainment è la self-expression. Questo spiega perché i social network hanno tanto successo: in internet la comunicazione deve essere a due vie. Non è come vedere la televisione, dove lo spettatore non interagisce».
Fin qui tutto bene. O forse no. Perché oltreoceano qualcuno non ha gradito il modo in cui è impostata la piattaforma dell’Huffington Post, diventata in pochi anni da aggregatore di notizie a guru dell’informazione negli Stati Uniti. Non si tratta di un semplice malumore. Mentre la Huffington vendeva alla America On Line la sua creatura per 315 milioni di dollari lo scorso febbario, gli oltre 9000 collaboratori del sito, in maggior parte blogger, lamentavano i mancati pagamenti del lavoro svolto. L’accusa, oltre a una richiesta di risarcimento totale di 105 milioni di dollari, è quella di aver sfruttato gratuitamente il lavoro dei blogger. Arianna Huffington offre la sua versione dei fatti. «L’Huffington Post è una piattaforma che lavora su due livelli. Da una parte c’è una testata che lavora a livello nazionale e locale, offrendo lavoro a 1400 giornalisti. Dall’altra ci sono dei blog che noi ospitiamo. Ma i bloggeristi non sono obbligati a scrivere per l’Huffington». Dunque perché pagarli? La Huffngton parla di «Età dell’oro del giornalismo on-line». Quest’oro, almeno in Italia, arriverà?