Con “meridionale di merda” Roma toglie il monopolio al Nord

Con “meridionale di merda” Roma toglie il monopolio al Nord

Se uno come Giampiero Galeazzi, non esattamente un padano, inveisce contro il suo portiere che secondo lui non gli consegnava regolarmente la posta con frasi del tipo «meridionale di merda, non sei capace nemmeno di guardare le pecore», più altri insulti sparsi, e la prodezza gli vale solo 300 euro di multa, sanzione confermata anche dalla Cassazione, è forse il caso di chiedersi non solo com’è considerato oggi in Italia un uomo del Sud, ma soprattutto chi possa fregiarsi del pregevole titolo.

Essere meridionali in questo Paese è probabilmente percepito come un peso insostenibile, se persino un cittadino nato e vissuto a Roma com’è Galeazzi lo agita come una clava verso il nemico del momento. Si potrebbe quasi definirlo uno stato d’animo transnazionale, che costringe quella condizione geografica a obiettivo di qualsiasi contumelia, come tragico paradigma di un’insoddisfazione sociale. Per dire ancora meglio e senza più infingimenti: ma il meridionale può ancora considerarsi orgogliosamente italiano?

Si sta compiendo il destino che non riuscì ai settentrionali del dopoguerra, i quali dovettero barattare una enorme necessità di mano d’opera, nel momento di più grande espansione del Paese, con la forzata condivisione delle loro terre e delle loro città. Oggi, se possibile, siamo tornati a quel giorno zero, con in più un fardello: la totale mancanza di prospettiva e di coesione sociale. Quei meridionali sono stati sostituiti nel tempo da etnie cariche di aspettative e di bisogni, che hanno modificato in modo irreversibile il rapporto tra italiani e italiani. Quel rapporto d’un tempo, ancorchè interessato e basato su interessi convergenti, non ha più ragion d’essere, dunque il meridionale potrà contare soltanto sulla forza del suo territorio. Forse anche un bene, se l’emergenza farà sorgere risorse insospettabili.

Fin qui l’aspetto più socialmente evidente e noto. Ma ciò che ribolle appena sotto la crosta dei nostri pensieri è proprio l’idea largamente diffusa che al meridionale corrisponda (e ne derivi automaticamente) una lunga teoria di guasti italiani. Questo atteggiamento ha raggiunto la sua sintesi più sofisticata e pericolosa nello scontro tra poveri delle stesse terre, in quel «meridionale di merda, non sei capace nemmeno di guidare le pecore», che un delicato meridionale come Galeazzi rivolge al suo portinaio.

Se il Sud non dovesse più fare blocco sociale, neppure in termini di spicciola solidarietà, ciò dovrebbe preoccupare prima di tutto gli eserciti padani che nel furore separatista hanno sempre trovato la sintesi politica di ogni battaglia, ma potrebbe rovinare anche il sonno di un certo pensiero nordista di peso che accarezza sempre di più l’ipotesi di lasciare il Sud al suo marginale destino. In entrambi i casi, una lotta tutta interna al meridione depotenzierebbe immediatamente la contrapposizione geografica tra settentrione e meridione del Paese, riportando l’ordine naturale delle responsabilità interamente sulle spalle di chi si sente e crede (vero) motore dell’Italia.

In buona sostanza, la Lega dovrebbe spiegare compiutamente ai suoi elettori, e senza più risposte fumose, perché in tutti questi anni non è stata in grado di produrre uno straccio di federalismo, mentre allo stesso modo al nord più civilmente e intellettualmente attrezzato toccherebbe prendersi in carico quell’eresia morale di cui si è sempre sentito l’interprete più genuino e accreditato. Due imprese sinceramente memorabili, che al momento non paiono neppure allo stato germinale.
C’è forse una terza via, una soluzione tampone: che nel frattempo Bisteccone rinsavisca un po’.

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