Confindustria, adieu. Con una (anzi, due) lettere indirizzate a Emma Marcegaglia, presidente del sindacato degli industriali, l’ad di Fiat Sergio Marchionne conferma quanto era già, da tempo, nell’aria. La Fiat (con Fiat Industrial) esce da Confindustria. I motivi? Le ultime prese di posizione, che, secondo Marchionne, andrebbero contro il rilancio economico. In particolare contro «due importanti decisioni», come l’accordo interconfederale del 28 giugno, «di cui Confindustria è stata promotrice», e «l’approvazione da parte del Parlamento dell’Articolo 8». Arrivate «dopo anni di immobilismo», scrive nella lettera.
E poi, sottolinea l’accordo del 21 settembre ha ridotto «le aspettative di efficacia dell’articolo 8». Motivo per cui la Fiat, «che è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale con 181 stabilimenti e 30, non può permettersi di operare in Italia, in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato», scrive. Poi «la Confindustria politica ha interesse zero»: anche se grazie alla politica, soprattutto a Fiat, ingenti aiuti sono arrivati anche in anni recentissimi. Insomma, Fiat lascia. A partire dal 1 gennaio 2012. Non è uno scenario di novità assoluta, come si è detto: ma gli effetti non sono ancora del tutto chiari.
«Questa è una strada che la Fiat aveva già intrapreso. Si poteva capire», spiega Luca Germano, politologo dell’Università di Trieste ed esperto di relazioni industriali. «I contratti di Pomigliano e Mirafiori sono emblematici: già allora la Fiat agiva e voleva agire al di fuori del contratto nazionale». L’azienda andava già nella direzione dello sganciamento. La decisione, aggiunge il professore, non può stupire. Anche perché «capita spesso che grandi aziende, soprattutto all’estero, preferiscano agire in modo isolato. In questo modo riescono a far sentire di più il proprio peso specifico». E quello della Fiat, specie in Italia, è molto importante. Alla base di tutto sarebbe la volontà di fare lobbying sul governo attraverso modalità diverse. «Senza avere le mani legate».
Il quadro, poi, è globale. Il contesto in cui si muove Fiat è di grande competitività internazionale, e sorge un altro dubbio: che questo sia solo il primo passo di un lungo addio? Prima Confindustria, e poi l’Italia intera. Chissà. Come sostiene Germano «Fiat da tempo ha mostrato l’intenzione di spostare il proprio baricentro in altri lidi, dove i vantaggi sono evidenti rispetto al sistema italiano. Tassazione minore, incentivi alla ricerca, incentivi per investimenti in stabilimenti produttivi». Ad esempio la Serbia e il Brasile. «Un mercato strategico: per produzione e utilizzo degli impianti». E gli Usa? «Dal punto di vista competitivo, e quindi di mercato, anche gli Usa presentano enormi vantaggi rispetto all’Italia. Anche solo la Borsa di Wall Street, è altra cosa rispetto alla nostra Piazza Affari». In ogni caso, non è detto.
Come spiega Giovanni Verga, ordinario di economia all’Università di Parma, «l’abbandono di Fiat è possibile, ma non ora. Magari tra dieci anni». E perché? «Gli ultimi interventi in materia di contratti fanno pensare che l’intenzione Fiat sia proprio di non lasciare il Paese, ma di restare, e di cambiare le cose». Ed è proprio ciò che è certo: le situazioni contrattuali non soddisfano i parametri dell’azienda di Torino, «che, in questo senso, è più vicina alla lettera della Bce al Governo, rispetto a Confindustria». Chiede molta più libertà per gestire il lavoro e gestire i contratti. Per farlo segue altre strade, perché il suo peso contrattuale nei confronti del Paese è ancora forte.
E Confindustria come l’avrà presa? I due economisti sono concordi: «è un duro colpo». La Marcegaglia, certo, cerca di minimizzare, spiega Verga. Ma il danno è forte. Prima di tutto «per l’immagine. All’estero Italia significa Fiat prima ancora che Eni ed Enel», continua. E poi anche in termini pratici: «altre aziende potrebbero seguirla», in una fuga da Confindustria potrebbe indebolire sempre di più il suo potere contrattuale. La Fiat era la maggiore azienda, sia a livello di «peso specifico», come puntualizza Germano, sia anche a livello economico.
Ma, continua Verga i problemi che Marchionne ha enucleato «esistono davvero», e sono comuni. «I costi sono troppo alti. Un fatto che incide soprattutto in settori soggetti alla competitività straniera». E le tasse non si possono abbassare. «Diventa quasi naturale andare all’estero. In Romania si sente il rumeno come prima lingua. E come seconda, l’accento veneto». Insomma, dopo aver lasciato la Confindustria, per la Fiat la tentazione dell’estero è forte. Fare pressione in autonomia sulla politica nazionale, intanto, non contrasta con lo scenario della “emigrazione”.