Dalla Francia agli Usa, il mondo torna ad occuparsi dei palestinesi

Dalla Francia agli Usa, il mondo torna ad occuparsi dei palestinesi

Non tutto il male viene per nuocere, purché si sappia cogliere le opportunità di una crisi. Uno slogan, certo, ma vero soprattutto quando si affrontano le insidie del processo di pace tra israeliani e palestinesi, ormai in uno stallo drammatico e non più tollerabile in uno scenario di rapida scomposizione degli equilibri in tutta l’area mediorientale.
La richiesta di Abu Mazen di procedere al riconoscimento da parte dell’Onu di uno Stato palestinese è sembrata un’accelerazione quasi a tutti. Sicuramente agli attori principali in campo, a partire dagli Stati Uniti. Ed in effetti il tema non sembra essere più in agenda al Palazzo di Vetro, ma rappresenta piuttosto il punto di partenza di un nuovo, possibile round negoziale.

Questa volta si potrebbe fare sul serio tra le due parti, ma a precise condizioni.

Innanzitutto se si ammetteranno gli errori commessi in passato, a cominciare dalla necessità di sancire confini territoriali ben precisi, possibilmente quelli del 1967. Non aiuta, in tal senso, la ricorrente politica di costruzione di insediamenti in Cisgiordania. È vero che il partito ultra-conservatore Shas tiene in ostaggio la maggioranza di governo; ma è proprio l’irresponsabilità di una parte della leadership israeliana che oggi sembra fare da tappo allo sblocco di un processo di pace efficace.

Ciò servirebbe ad Israele per evitare quel “pericoloso isolamento” nella regione di cui ha parlato nelle scorse ore il Segretario Usa alla Difesa Leon Panetta. Perso l’architrave di sicurezza con l’Egitto, logorato in meno di una generazione il rapporto privilegiato con la Turchia, dismessa la fragile neutralità di vicinato con la Giordania e chiuso per ora il canale diplomatico segreto con la Siria in ebollizione, Israele si trova a dover difendere la propria reputazione prima ancora che la propria sicurezza, pur minacciata da un Iran sempre più attrezzato verso la bomba atomica e sempre più aggressivo nei toni.

Per rinsaldare l’amicizia con i vecchi e nuovi amici, Israele ha bisogno di mostrarsi disponibile a far progredire il processo di pace.
I palestinesi, per ora, guardano piuttosto passivi. La mossa diplomatica di Abu Mazen era chiaramente senza speranze, ma ha avuto il merito di riportare al centro dell’attenzione una questione che andava scivolando nelle posizioni più basse dell’agenda politica dei governi, impegnati a fronteggiare la crisi del debito, a chiudere la parentesi afgana e possibilmente quella libica.

L’upgrade della Palestina allo status di Osservatore all’assemblea dell’Onu sul modello della Città del Vaticano sembra oggi una prospettiva probabile, a condizione che tale status non venga utilizzato come una clava per rivendicare risoluzioni del Consiglio di Sicurezza o deferire al Tribunale Penale Internazionale i dirigenti israeliani. Tuttavia esso sarà il punto di approdo di un processo negoziale che si preannuncia lungo. E che dipenderà in buona parte dalla stabilità interna al governo israeliano, messo sotto pressione dalla crisi economica globale e dalla protesta degli indignati, nonché dalla volontà della comunità internazionale di svolgere un’azione seria di avvicinamento tra le parti.

Una parola piuttosto chiara su quest’ultimo tema l’ha detta di recente il Ministro degli Esteri francese Alain Juppé, secondo il quale la formula del Quartetto è superata dai fatti. Come dar torto a una constatazione di buon senso, visto che nel Quartetto ci sono sensibilità troppo diverse e posizioni troppo distanti e il forum è diventato negli ultimi anni solo una camera di compensazione per scaricare frustrazioni e prendere tempo.
L’ultima road map messa in campo dal gruppo di contatto non è da buttar via, anzi. Ma i tentennamenti e le prudenze sono eccessive in un passaggio in cui servono soprattutto risposte.

L’altra notizia è che l’America ha voglia di occuparsi, se possibile una volta per tutte, del dossier israelo – palestinese, anche se alle sue condizioni. Washington, da sempre supporter dello Stato ebraico, accetta mal volentieri la nuova battaglia ad oltranza e “a prescindere” tra le due parti. Certo, lì si è aperta la campagna elettorale e la lobby ebraica è sempre molto ambita dai candidati. Ma nelle stanze del potere si avverte tutta la difficoltà a sostenere posizioni e tesi superate. È il caso che anche a Tel Aviv si avverta questa urgenza e lo si faccia nel momento in cui, per la prima volta nella storia recente, Israele rischia l’isolamento regionale e globale.

Buona volontà, realismo, capacità di visione. Questi ingredienti oggi non sono più un’opzione ma una assoluta necessità.

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