Nessuna primavera è infinita, nemmeno quella araba

Nessuna primavera è infinita, nemmeno quella araba

Come in un gioco di scatole cinesi, aprendo il sarcofago di un Faraone c’è il rischio di ritrovarne un altro, più piccolo forse ma con le stesse fattezze. La retorica dell’espressione “primavera araba” è efficace non solo per le suggestioni che offre ma anche per le prospettive cui rimanda. Nessuna primavera dura per sempre. Può essere preludio di vero cambiamento o lasciare il posto ad un gelido inverno.

L’interrogativo sul futuro e la stabilità di paesi come Tunisia, Egitto, Libia, ma anche Siria, Bahrein e Yemen cade nel momento forse più sbagliato della storia. La crisi economica e finanziaria, che sembra orientarsi verso il “douple-dip”, la doppia recessione consecutiva, taglia di colpo la capacità dell’Occidente di accompagnare le legittime ambizioni di riscatto sociale, economico e politico delle popolazioni che hanno animato la più grande ondata di potenziale democratizzazione dal 1989. La comunità internazionale, dopo i guasti dell’Iraq e ancora immersa nel “pantano afgano”, sa che questa volta l’imperativo è categorico: la “ownership” delle rivolte, anche di quelle con implicazioni strategiche e militari più forti come nel caso libico, deve restare a quei popoli. Accompagnare i processi di transizione vuol dire fornire, se richiesto, ogni supporto necessario a stabilizzare lo scenario nazionale e regionale e costruire uno schema di convivenza civile e sociale compatibile con storia, cultura e tradizioni di quell’area. Facile a dirsi, meno a realizzarsi. Come ha autorevolmente scritto Thomas Friedman sulle colonne del New York Times “se chiedessimo un dollaro a tutti i politici e i commentatori che parlano di Piano Marshall per il Mediterraneo pur sapendo che è impossibile, avremmo le risorse per realizzare quel Piano Marshall”. Le costrizioni di bilancio e l’austerity sono l’elemento strategico più evidente di questo passaggio così straordinario della storia del Mediterraneo. Un passaggio che qualcuno ha inteso paragonare alla caduta del Muro e all’apertura democratica degli ex regimi dell’Est; altri vi hanno visto, forse più correttamente, qualcosa di simile ai moti liberali del 1848, innescati dalle forze più dinamiche della società – il primo nucleo di borghesia industriale – ma drammaticamente consegnati alla restaurazione. In realtà, sotto il profilo strategico, le rivolte arabe sono il colpo di coda della Guerra Fredda, l’ultimo atto dello scongelamento di una cortina che aveva imposto autocrazie politiche per mantenere lo status quo. Un assetto non più tollerabile nel mondo della interconnessione, dell’informazione e delle nuove tecnologie.

Oggi, il problema della transizione in quei paesi è reale e per certi versi preoccupante. Occorre però sgomberare il campo da alcuni equivoci. Primo: la democrazia, o comunque il passaggio dall’autocrazia a forme di società aperta, è un processo che si muove sulle ali dell’entusiasmo, del sacrificio e della rivolta. Falso. La democrazia è per definizione una learning curve, che richiede tempi lunghi e spesso incontra ostacoli o cambi di rotta. Secondo: il vento della democrazia soffia e soffierà in tutta l’area. Falso. La “primavera araba” è una semplificazione mediatica ma ciò che accade nei singoli paesi ha poco o nulla in comune con le rivolte del vicino. Punti di contatto si riscontrano in Tunisia ed Egitto, ma con storie e interessi geopolitici assai diversi. Sicuramente il caso libico, con la sua stratificazione tribale, non è assimilabile ai primi due, come non lo è lo Yemen, già entrato nel novero degli “Stati falliti” da anni, con o senza dittatore. Ogni transizione avrà quindi modalità e tempi peculiari.

Ciò non significa che non si imponga, per l’Occidente e per l’intera comunità internazionale, una riflessione di sistema sul futuro del Mediterraneo. Oggi, nel Mediterraneo, si incrociano tre flussi strategici. Il primo è quello occidentale ed europeo in particolare. E’ interesse dell’UE che l’area si stabilizzi al più presto e che i nuovi governi siano espressione di una chiara spinta verso una società aperta e plurale. In tal senso, i gravi ritardi connessi al processo di integrazione euro-mediterranea si fanno sentire come macigni. Ma non tutto è perduto: questa transizione può rappresentare un’opportunità per rilanciare lo spirito di Barcellona, anche se su presupposti nuovi. Il post – Mubarak in Egitto e il post – Ben Alì in Tunisia sono oggi in balia di forze diversissime tra loro: giovani delle piazze, militari, ex commis di regime riciclati e soprattutto l’incognita dei movimenti islamisti. Non delle forze islamiche, attenzione, che sono lo specchio di una sensibilità sociale e politica repressa per decenni. Ma di quelle organizzazioni della nebulosa integralista che hanno voglia di acquisire grandi rendite di posizione con piccoli sforzi. Per intenderci, il problema egiziano potrebbe non essere quello dei Fratelli Musulmani, quanto dei gruppi salafiti o della neonata compagine di al-Qaeda nel Sinai. L’Europa e l’Occidente hanno su tali scenari un dilemma in più rispetto al passato: la “fiscal security” potrebbe scalzare la “national security”, con buona pace di qualsiasi Piano Marshall.

Il secondo flusso strategico riguarda l’interesse dei Paesi emergenti o già emersi, come la Cina o la Turchia. Rimasti alla finestra degli affari globali per anni e delle rivolte arabe per i primi mesi, questi paesi vogliono far valere la loro nuova posizione geopolitica, nel business (nel caso cinese) come nel modello politico (nel caso turco).
Il terzo flusso è meno evidente e forse sottovalutato ma rimanda alla storia ancestrale di quest’area del mondo: la lotta egemonica di due modi di concepire l’Islam che corrispondono a due disegni geopolitici. Da un lato la dottrina sunnita, la cui cifra è espressa dall’Arabia Saudita, dall’altro uno sciismo sempre più “esportabile”, quello dell’Iran, che intende approfittare della crisi per innestare influenza.

Il caso libico, infine, ci lascia alcune lezioni importanti sotto il profilo militare. Un’operazione, quella della NATO, che ha raggiunto risultati notevoli in un arco di tempo ragionevole. Una guerra che, come quella nei Balcani, si è combattuta soprattutto dal cielo e, in parte minore, dal mare. Ma soprattutto ha visto per la prima volta cambiare il peso specifico degli attori in campo. Con gli Stati Uniti in posizione defilata, benché impegnati in un supporto essenziale in termini di ISR (Intelligence, Sorveglianza e Riconoscimento dei bersagli), agli europei è toccata la parte del leone. Ma soprattutto, il conflitto ha visto schierati in prima fila paesi come il Qatar o gli Emirati Arabi Uniti con compiti non secondari. Il risultato è che in 6 mesi sono state effettuate 25.000 “sortite aeree”, sono stati colpiti oltre 5.000 bersagli, i ribelli del CNT sono stabilmente insediati a Tripoli. Tutto bene, quindi? Non necessariamente. Il deficit nelle capacità militari europee si è fatto sentire in alcuni passaggi, così come le differenze in termini di cultura strategica, evidenziate ad esempio dal dibattito interno alla Germania, poi rimasta fuori dalle operazioni. Delle condizioni di ristrettezza finanziaria si è già detto. Ma se Sparta piange, Atene non ride: gli Stati Uniti ridurranno di 450 miliardi $ in dieci anni il proprio budget per la difesa. Il Segretario uscente alla Difesa Robert Gates ha ricordato come in America ci sia oggi una classe dirigente che non è cresciuta nel clima della Guerra Fredda e che non farà sconti a quelle alleanze che si dimostrino inefficienti o troppo costose. Gli alleati europei della NATO sono avvisati. Ma ora c’è da pensare al futuro della Libia. E di tutto il Mediterraneo.