Londra. Il malumore delle manifestazioni americane è arrivato anche oltreoceano, a Londra. Sabato scorso, un groppuscolo di manifestanti ha piantato le prime tende a piazza Paternoster, nel cuore della City londinese, e davanti alla sede del London Stock Exchange (la borsa britannica). In poche ore, la polizia ha scacciato gli attivisti, ma poco distante il reverendo Geremy Knowles, vicario della cattedrale londinese di Saint Paul’s, ha prontamente offerto lo spiazzo davanti alla chiesa della capitale ai manifestanti. Così, in meno di un giorno, è nato Occupy London, l’omonimo britannico di Occupy Wall Street. E’ ormai una settimana che decine di persone dormono davanti alla cattedrale. Il movimento è cresciuto da poche tende fatiscenti a un piccolo accampamento che può contare ormai su una cucina, generatori elettrici affidabili, una libreria e anche un’ “università libera” a disposizione di tutti, dove alcuni professori della Scuola di studi africani e orientali (SOAS) e dell’Università di East London tengono saltuarie lezioni. Ma chi sono i manifestanti? La folla sembra avere qualcosa di diverso dalla solita calca delle proteste.
È innegabile, sono subito individuabili i soliti noti dell’attivismo all’inglese: gli immancabili proseliti del Socialist Workers Party, presenti ad ogni manifestazione made in U.K. e sostenitori senza compromesso dell’intrinseca crisi del capitalismo; i verdi del Climate Camp, che si battono per l’ambiente e l’infaticabile e ammirevole movimento Uk Uncut, gruppo che combatte le elusioni e le facilitazioni fiscali concesse da Downing Street alle grosse compagnie britanniche. Tra le tende spunta anche la bandiera di Anonymous, il gruppo di hacker più famoso del momento. Ma quello che stupisce maggiormente è la presenza di tantissimi figli della classe media disoccupati o universitari e la presenza di numerosi adulti anche in giacca e cravatta che paiono essere appena usciti dagli uffici in vetro che circondano Saint Paul. Non è sicuramente la prima volta che questi gruppi sociali sono politicamente attivi, ma, come racconta in una conversazione con Linkiesta Jeremy Dexter, studente di ingegneria, 21 anni, presente la prima notte davanti al London Stock Exchange, “Occupy London è stata una reazione spontanea, non una protesta organizzata da settimane e per un determinato giorno. E’ un movimento ancora in crescita e stupisce che i primi e i più numerosi a dormire davanti alla cattedrale siano stati studenti benestanti come me che solitamente sono bravi soltanto a seguire eventi già organizzati da altri”.
Adesso che la piazza di Saint Paul’s è piena, il dubbio maggiore a cui trovare risposta è cosa effettivamente vogliono i manifestanti. E’ la domanda sulla bocca di tutti, soprattutto dei media britannici e internazionali. Nelle scorse settimane, a turno, i giornali hanno accusato la piazza di essere frutto della solita narrativa anti capitalista e con poco da offrire. In pochi sono convinti della genuinità del movimento. Anche la lunga lista di rivendicazioni davanti al tendone delle informazioni sembra sintetizzare le difficoltà ideologiche del gruppo. Le richieste vanno da un maggior numero di case popolari, all’istruzione gratuita, alla green economy, alla fine del capitalismo. In molti sembrano essere d’accordo: dai vicini pub, gremiti dei lavoratori della City, ogni tanto qualcuno sentenzia lapidario “get a job” (trovatevi un lavoro). Di riflesso, i partecipanti però ribattono: rispondono che le accuse dei più sono soltanto frutto di una pigrizia intellettuale. “E’ normale che le richieste siano differenti – continua Jeremy Dexter – siamo diversi gruppi accumunati dall’idea che il capitalismo sia arrivato a un eccesso. Alcuni vogliono soltanto che sia più moderato, altri sono più radicali, ma ascoltiamo tutti. La mia accusa non è rivolta soltanto ai media del Regno Unito, ma anche a quelli del resto del mondo. E’ un atteggiamento che non serve che non vuole comprendere quello che chiediamo. Se uno si sforzasse vedrebbe anche idee concrete. Il punto cinque del manifesto per esempio chiede in modo specifico che sia passato in Parlamento il rapporto Vicor, redatto da una commissione governativa, che invita a dividere il sistema bancario tra la parte commerciale e la parte che si occupa di finanza. Nel Regno Unito tale divisione manca ed è stata uno dei motivi della crisi. L’hanno fatto? No, perché? Chi lo sa”.
Occupy London è organizzatissima. In pochi giorni una schiera di volontari ha messo su una squadra legale, una squadra per il pronto intervento medico e tutti i giorni alle 19.30 si tiene l’assemblea generale in cui si discutono e si rendono noti i progressi della giornata. Poi, al termine della riunione – corta e con i minuti contati per ogni intervento senza simpatia per i prolissi e i demagoghi – la folla si divide in gruppi di discussione più piccoli. Si parla di “come trovare soluzioni concrete”, “come far capire a tutto il restante 99 per cento che non sono soltanto dei fanatici” e “di come non diventare degli occupanti abusivi e tenere la manifestazione nella legalità”. Per il momento tutto è ordinato e la folla è rispettosa, ognuno parla, esprime un’idea e poi la proposta è messa al voto. La polizia controlla a distanza senza provocazioni e senza farsi troppo notare. Anche fuori dai confini della piazza di Saint Paul qualcosa si muove. Giovedì scorso un anonimo commerciante locale ha regalato tremila sterline al movimento, ogni giorno arrivano donazioni di cibo e grossi carichi di tende e coperte per combattere il clima che di notte scende vicino allo zero. “Avremmo qualcosa da imparare da qui anche in Italia visto come sono andate le nostre proteste degli indignados”, dice a Linkiesta Raffaella Brizzi, docente dell’Università di Londra. “In Italia i black block hanno reso la situazione dei manifestanti pacifici più difficile e meno condivisibile dalla maggioranza della popolazione. Una discussione ordinata e produttiva come questa a cui ho assistito a Saint Paul’s è difficile da trovare in Italia e forse sarebbe il caso di imparare questi metodi per ottenere più risultati”.