Alla sua sesta edizione il Festival Internazionale del Film di Roma continua a vivere la sua doppia natura, quella del festival patinato e ricco ma poco considerato da stampa e critica internazionale. Poche anteprime e per di più scarsamente seguite da giornalisti accreditati. L’organizzazione è elefantiaca, non paragonabile allo stile di Berlino e Cannes, e soprattutto il programma non sorprendente, realizzato importando interi pacchetti di film da altri festival internazionali come quelli di Toronto o il Sundance dello Utah, senza mai dar mostra di perseguire un percorso coerente.
L’idea di selezione è quella del fuoco d’artificio o dell’arroganza muscolare data dall’ingente disponibilità economica: pellicole già passate ad altri festival e acquistate dal RomaFest ad un prezzo troppo elevato. Discorso a parte merita la sezione parallela e di ricerca intitolata “Extra – L’altro cinema”, curata da Mario Sesti, che negli anni ha coltivato uno zoccolo duro di ammiratori e fedeli seguaci. Le cui selezioni di edizione in edizione hanno sempre richiesto più d’un salto mortale per essere visionate senza perdersi le proiezioni del concorso ufficiale, proprio come quest’anno.
Questo Festival di Roma 2011 non ha scatenato nemmeno quei brividi in anteprima che le case di distribuzione italiane regalavano a pochi giorni di anticipo sull’uscita in sala del film, che nell’edizione precedente erano stati il Social Network di David Fincher e il Ladri di cadaveri di John Landis (forse il colpo migliore di sempre degli organizzatori del Festival). Le avventure di Tintin di Steven Spielberg è stato proiettato nel giorno d’apertura per poi uscire sugli schermi nazionali meno di 24 ore dopo; il pamphlet di Curtis Hanson sul crack della Lehman Brothers Too big to fail viene trasmesso su canali satellitari della piattaforma Sky nella stessa settimana del festival; la poderosa pellicola d’apertura diretta da Luc Besson, The lady, sulla vicenda politica e esistenziale del premio Nobel per la pace birmano Aung San Suu Kyi, ha fatto parlare di sé più per le contestazioni di un piccolo gruppo che ha tentato di rovinare il red carpet del film che per gli effettivi meriti artistici.
Se la missione di Richard Gere è stata quella di monopolizzare i tabloid americani tornando all’Auditorium per ritirare il Marc’Aurelio alla carriera, dopo essere stato ospite a Roma già delle passate edizioni, fortunatamente i cinefili più esigenti hanno potuto godere degli incontri col pubblico tenuti da due maestri del livello di Michael Mann (il regista di Heat, Insider, Collateral e L’ultimo dei Mohicani), e del tedesco Wim Wenders, venuto a presentare il suo film in 3D dedicato all’arte della leggendaria coreografa Pina Bausch.
Tutte le proiezioni sono andate sold out in un battibaleno, sintomo di una frequentazione del festival, quantomeno da parte dei romani. Pubblico straniero infatti se n’è visto ben poco sia tra i giornalisti che tra gli appassionati. Sarà per questo che per gli organizzatori, forti del numero sempre positivo dei ticket staccati, passa decisamente in secondo piano la qualità dei film della selezione ufficiale, in concorso e fuori, sempre più appiattiti su di una concezione di tranquilla e rassicurante medietà senza scossoni e senza sorprese: il cinema americano “indipendente”, il cinema italiano “leggero”, il cinema francese “d’autore”, il cinema europeo “nascosto”, i soliti canoni. Ed è così che anche una buona intuizione come quella del focus sulla recente produzione britannica si trasforma in un ulteriore confuso minestrone dentro cui gettare cineasti diametralmente inconciliabili come Terence Davies, Michael Winterbottom, Paddy Considine, David Hare, accomunati solo dalla nazionalità di provenienza. Una buona metafora dei criteri sui quali questo festival pone le sue scricchiolanti fondamenta.