Campodoro, ci pensa la Cina a salvare l’Italia

Campodoro, ci pensa la Cina a salvare l’Italia

Un angolo di mondo. Disperso nel vuoto della pianura padovana, tra campi e strade diritte, c’è Campodoro. Ha 2.700 abitanti, pochi edifici, case basse e capannoni. Una strada lo collega a Padova e poi, andando più in là, a Vicenza. È giusto nel mezzo. Ci sono anche la chiesa, il supermercato e un municipio costruito in un prefabbricato giallo. Gli edifici sono nuovi, sembrano disabitati ma dentro si scoprono il panettiere e il tabaccaio. Infine, una vecchia scuola media che sembra chiusa. Non ci sono rivendite per i biglietti del bus: per procurarseli si deve andare al paese vicino. Eppure, proprio qui c’è l’avamposto del nuovo impero economico: la Cina è sbarcata dieci anni fa con una fabbrica di frigoriferi. Con la Haier, che il lavoro, in tempo di crisi, lo può dare.

«Per il resto, la disoccupazione è forte», sospira Massimo Ramini, il sindaco, eletto in una lista civica tre anni fa, al suo secondo mandato. Il suo paese, ai tempi d’oro, era stato uno dei più produttivi. «Siamo stati tra i primi a richiedere manodopera straniera», spiega, «avevamo officine e fabbriche che creavano posti di lavoro. Il nostro problema era trovare i lavoratori». Oggi, invece, «siamo messi così»: mostra come esempio una richiesta, presa da un grosso faldone, di sussidio minimo di disoccupazione. C’è la crisi. Ma c’è anche la Haier.

«È una buona risorsa», racconta. «Loro stanno attenti a pescare nel territorio», quando possono. Anche nelle piccole cose: nei giorni delle feste patronali mettono a disposizione delle parrocchie un frigorifero. «Sa, noi in paese ci teniamo ancora a queste tradizioni, e loro ci danno una mano». E se l’unico momento di tensione tra paese e azienda è stato il “caso” di una palestra utilizzata per prove di rumore, sembra che le cose vadano bene. «Stanno attenti a non inquinare, pagano le ferie ai dipendenti». E, quando la stagione è alta, cioè d’estate, assumono di più (anche se, appunto a stagione). Insomma, un’isola felice Campodoro.

Ma appunto, perché proprio a Campodoro? Una storia lunga, per come la racconta Francesco Albrizio, direttore dello stabilimento, dal 2004 alla Haier e con un passato in Electrolux, Philips, Whirlpool. Placido, dietro a una barba bianca austroungarica, snocciola date e dati, assecondando lo sguardo vigile del sindaco. «Una vicenda che viene da lontano e che andrà lontano», comincia. Tutto nasce a Qingdao, in Cina, nel 2001: il board dell’azienda in una riunione, decide che deve rilanciarsi, che «doveva conquistare il mondo», sorride. L’obiettivo, ma anche la necessità, era «globalizzare». Il gigante «malato per due secoli, vuole riprendersi il suo posto. Che è, appunto, al centro». Ma, nonostante le intenzioni combattive, non è molto semplice.

Prima di tutto, fuori dalla Cina,«non avevano conoscenze approfondite delle realtà commerciali e produttive» degli altri paesi. Poi, «difficoltà con la lingua» e scarsa capacità di confrontarsi con sistemi sindacali diversi. Insomma, puntano a Campodoro dopo essere stati indirizzati da un consulente italiano con pochi scrupoli («ma non ne faccia il nome»), che aveva segnalato una nuova fabbrica di frigoriferi, la Meneghetti. Il proprietario, però, fino a quel momento si era occupato di forni. L’idea di aprire una catena produttiva di frigoriferi era nuova e non sperimentata. La Haier, comunque, rileva l’azienda. La base direzionale, però, è a Varese.

«Il giorno dell’inaugurazione della Haier a Campodoro», interviene il sindaco, «ero presente in qualità di vicesindaco. Tutti eravamo curiosi. E sorpresi: i cinesi, prima di tutto, erano alti. E poi avevano delle strane biciclette gialle senza freni». Non è l’unico clash culturale. All’interno della fabbrica regnava la disorganizzazione. «Tra gli operai c’era chi banchettava, chi tagliava il salame, chi faceva la calza. E poi una cosa inaudita: lo sciopero», scherza Albrizi. «I cinesi non riuscivano a capire lo sciopero. Anche la cassa integrazione era un mistero, per loro: perché pagarti per non lavorare? Piuttosto li tenevano in fabbrica e producevano pochissimo». Oltre a questo, c’erano anche problemi di lingua. «Nessuno parlava italiano, e nemmeno inglese. C’era un interprete per questo». Come inizio per la conquista del mondo, non sembrava il migliore.

Adesso la fabbrica funziona bene. Con 120 dipendenti, e una linea produttiva riescono a produrre almeno 450 pezzi al giorno. Dalla formazione dei componenti all’assemblaggio, fino al controllo qualità e all’imballaggio. «Benvenuti in Cina», scherza Albrizi. Però c’è tutto. «Piccolo è bello, dico io», sostiene. Intanto indica le varie fasi di preparazione del frigorifero. Il materiale plastico viene scaldato, formato e raffreddato. Poi assemblato con componenti più robusti, testato e preparato. Infine, pronto per la spedizione.


Degli operai, nessuno è cinese.
Italiani, ma anche stranieri, che vivono nei dintorni: «Ci sono varie etnie. I cinesi, a Campodoro non ci sono più». Resta una segretaria, cinese ma nata in Italia, che si occupa dei rapporti commerciali con la madrepatria. Il tutto viene coordinato dalla Cina: lo segnala la presenza nell’ufficio di due orologi, uno sul fuso italiano e l’altro su quello di Qingdao.

I frigoriferi, però, vanno verso l’Europa e l’Italia. Fino a qualche anno fa anche in Cina, ma «laggiù ora fanno da soli», spiega Albrizi. Il fatturato del 2009 era sui 27 milioni. Nel 2010 sui 50. Quest’anno, forse, «avremo un leggero calo di produzione». Perché il modello è vecchio, e va innovato. «Lo terremo per un anno ancora, ma a prezzi più bassi». In ogni caso, l’azienda funziona. Avere alle spalle il gigante cinese conforta. «Ma l’obiettivo è stato puntare sul know how: l’Italia è la culla del frigorifero, qui è nato e qui c’era la migliore tecnologia. Per noi è stato importante cercare idee nuove, come il frigorifero con la cella del congelatore a cassetto, o a due porte. Sono modelli nuovi, e hanno avuto fortuna». Intanto, mostra orgoglioso questi suoi modelli, colorati e con la fascetta tricolore del made in Italy.


Ma è servito molto tempo.
Prima che arrivasse Albrizi «i dirigenti avevano fatto venire un manager dietro l’altro»: fino al 2004 erano stati in seria difficoltà. «Una questione culturale. Bisognava capirli, ma anche loro dovevano capire noi». Insomma, «non si può fare come in Cina, quando sei in un altro paese». Poi, le cose hanno cominciato a funzionare. Ora Albrizi ha un ufficio decorato con manifesti cinesi, cartelli con scritte motivazionali e slogan delle olimpiadi di Pechino, del 2008, sponsorizzate anche dalla Haier.

Anche i sindacati sono contenti. Come spiega Gloria Berton della Cgil-Fiom di Padova, «la Haier si comporta bene». Il problema del lavoro stagionale, «è contenuto, e non è diverso per le altre aziende». In ogni caso «rispettano i contratti, pagano sempre e sempre in tempo. Garantiscono le ferie». In un momento come questo, aggiunge, «sono in pochi a farlo». E se nel 2004 c’erano stati alcuni problemi con i lavoratori, ora tutto è rientrato. L’Italia va giù, qui no.

Non è una piccola Cina, Campodoro, e la Haier non è la sua Fiat. Si resta sempre in Veneto, con i problemi di una crisi che morde e fa paura. Ma se in un paesino della provincia di Padova c’è la sede europea del colosso cinese, qualcosa sta succedendo. Chissà. Forse è davvero la prima provincia del nuovo impero, e l’inizio di una nuova epoca. A Campodoro, però, non sembra che importi ancora, per il momento. La vita prosegue tra supermercato e caffè, e senza rivendite di biglietti del bus per Padova. 

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