Un passo avanti e uno indietro. Questo è il balletto sul reddito minimo di inserimento in cui potrebbe alla fine incappare anche l’esecutivo guidato da Monti, dopo alcuni tentativi andati a vuoto compiuti dai governi Amato e Berlusconi negli scorsi anni. Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, ha spiegato stamattina che «la riforma degli ammortizzatori sociali è un capitolo importantissimo, ma dobbiamo fare i conti con le poche risorse che abbiamo».
Tradotto, non si farà neanche questa volta una vera riforma, nonostante le parole pronunciate pochi minuti prima dal presidente del Consiglio sembravano presagire un altro scenario: «Servono soluzioni strutturali». Eppure qualcuno alla Commissione Europea deve aver creduto che l’arrivo del governo tecnico potesse rappresentare la volta buona, dopo gli inascoltati inviti ad introdurre un sistema di flexicurity, reiterati dal 1993 per quattro volte e culminati nella Comunicazione “Verso principi comuni di flessicurezza: più occupazione e migliore qualità attraverso flessibilità e sicurezza” del 2007. Nelle scorse settimane, la Commissione ha nuovamente chiesto all’Italia di introdurre strumenti atti a coniugare la flessibilità, sia in entrata che in uscita, con la sicurezza economica dei lavoratori attraverso adeguate politiche attive. Mentre sul primo aspetto qualcosa è stato fatto negli ultimi dieci anni, sul secondo siamo agli albori.
In tutti i Paesi dell’eurozona, ad eccezione di Italia e Grecia, sono previsti l’erogazione di un sussidio, che può avvenire sotto la forma del reddito minimo di inserimento (RMI), inteso come sostegno al reddito di ultima istanza per i disoccupati, e simultaneamente programmi di reinserimento personalizzati. Si tratta di sussidi temporanei, che a seconda dei Paesi assumono differenti caratteristiche ma con un comune denominatore: l’obbligatorietà dell’accettazione del piano di reinserimento proposto pena la perdita assoluta o parziale dell’indennità. L’Italia, invece, attende ancora una riforma strutturale del sistema degli ammortizzatori. Il risultato è che il quadro italiano è ancora delineato da discrezionalità, frammentarietà e categorialità, che a loro volta favoriscono la segmentazione e la dualità del mercato del lavoro. La novità degli ultimi mesi è che i Neet (né in formazione né al lavoro) e la dualità del mercato del lavoro tra tutelati e privi di tutele hanno reso maggiormente visibili gli effetti dell’applicazione, peraltro parziale, di una soltanto delle due colonne portanti della flexicurity, quella della flessibilità.
Per colmare tale vuoto il primo passo era stato mosso con la sperimentazione introdotta dal secondo Governo Amato (d.lgs. 237/98), ma che non fu poi estesa a livello nazionale. Per di più, la valutazione condotta da Irs, Cles e Fondazione Zancan non fu mai resa pubblica e tantomeno presentata al Parlamento come invece previsto dal decreto. Attraverso il reddito minimo di inserimento, introdotto nel 1998 in via sperimentale in 39 comuni dei quali 24 localizzati nel Mezzogiorno, e poi esteso nel 2000 ad altri 267, l’Italia aveva applicato, sia pure a titolo sperimentale, uno schema di sostegno al reddito di ultima istanza, di cui era ancora sprovvista. Con il reddito minimo di inserimento, per la prima volta nel nostro Paese, si era riconosciuto il ruolo delle misure di garanzia del reddito nell’ottica di un generale ripensamento del welfare, partendo dal presupposto che per risolvere il problema del lavoro possa essere necessario, talvolta, risolvere prima i problemi della povertà economica con adeguati sostegni di reddito e quelli dell’emarginazione sociale con incisive azioni di inserimento.
Successivamente, però, ci aveva pensato il “Patto per l’Italia” avanzato dal Governo Berlusconi a riportare l’intera discussione sul reddito minimo di inserimento alla sua fase iniziale. Da una parte, non ignorando gli esiti della sperimentazione e, dall’altra parte, non riuscendo a individuare una corretta soluzione ai limiti mostrati dai comuni nell’organizzazione e nel finanziamento dei programmi di inserimento. Dall’analisi empirica era, infatti, emerso che i due aspetti più innovativi del reddito minimo di inserimento, in pratica l’idea dell’inserimento come integrazione al versamento di un’indennità minima e la ricerca di un’articolazione fra intervento dello Stato e quello delle collettività locali, avevano fornito risultati piuttosto mediocri. In particolare, i comuni avevano proposto, il più delle volte, programmi di inserimento modesti sia in termini quantitativi, sia qualitativi.
Per questo motivo i programmi stessi erano risultati scarsamente correlati al tasso di uscita dal bisogno di ricevere il reddito minimo di inserimento. Diversamente, nelle realtà locali dove i progetti erano stati finanziati adeguatamente ed organizzati efficacemente avevano mostrato un’influenza diretta sulla possibilità di dimettersi dalla misura. Tali evidenze suggerivano la necessità di finanziare centralmente l’implementazione di uno strumento come il reddito minimo di inserimento, anziché ricorrere al cofinanziamento Stato-comuni previsto dal decreto. Seguendo l’indicazione opposta, il Governo Berlusconi propose, senza mai attuarlo, il RUI (reddito di ultima istanza) che avrebbe dovuto trasferire la complessa gestione dei programmi dai Comuni alle Regioni, con l’effetto di spostare il problema anziché affrontarlo.
A riaccendere il dibattito sul reddito minimo di inserimento era stato il ministro del Welfare, Elsa Fornero, che agli inizi di dicembre aveva spiegato l’intenzione del governo di riformare gli ammortizzatori, legandoli alle politiche di lotta alla povertà e alle politiche attive del lavoro: «La misura del reddito minimo garantito è una preferenza personale e non del programma del governo», ma aveva anche aggiunto che «rappresenta una direzione verso la quale l’esecutivo lavorerà». Fino ad arrivare alle dichiarazioni di oggi, che rischiano di far nuovamente tornare all’anno zero il tema della riforma degli ammortizzatori.
Nelle intenzioni del ministro del Welfare sarebbe dovuta essere una misura per tutti i disoccupati, coerentemente con i principi della flexicurity, invece potrebbe essere destinata a giovani e over-50, e probabilmente avviata in via sperimentale soltanto in alcune regioni, che avrebbero l’onere della cogestione. Se, come sembra possibile intuire dalle parole del ministro tale progetto, che non tiene evidentemente conto degli effetti della sperimentazione, fosse realizzato rischierebbe di trasformarsi nell’ennesima misura categoriale (soltanto alcuni individui) e discrezionale (soltanto alcune regioni). Rispetto al provvedimento inizialmente ipotizzato, questi ridimensionamenti, che sono collegati all’ingente costo complessivo dell’operazione (valutato da alcune stime in 25 mld), snaturerebbero a tal punto l’universalità della misura (destinata a tutti i disoccupati) da chiedersi se sia preferibile non attuarla. A questa conclusione sono già giunti i sindacati. In particolare Cgil e Cisl sono convinti che il reddito minimo di inserimento sia un provvedimento puramente assistenzialista, che non incoraggi seriamente il lavoratore a cercare una nuova occupazione. Ritengono che in un periodo di forti vincoli di bilancio, sia preferibile investire nell’estensione della cassa integrazione e in alcuni interventi fiscali che disincentivino il lavoro flessibile. Si tratta di una visione, specialmente per il primo aspetto, che trova d’accordo anche Confindustria.
A sostegno di tale tesi proviene inaspettata anche un’indicazione dalla Danimarca, dove il tanto decantato modello mostra segnali di cedimento, che rischiano di rimettere in discussione tutto l’impianto della flexicurity. La notizia, tuttavia, non giunge come un fulmine a ciel sereno. “Denmark Starts to Trim Its Admired Safety Net”: con questo titolo il New York Times avvertiva in un articolo pubblicato il 16 agosto 2010 sui rischi di tenuta della flexicurity in periodi di crisi economica nel Paese che l’ha adottata per primo. È passato un anno e mezzo e i rischi paventati sono in parte divenuti realtà. Dal 2013 il reddito minimo di inserimento sarà erogato fino ad un massimo di due anni anziché quattro.
È un segnale dell’insostenibilità della flexicurity nelle fasi di recessione? In Danimarca il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato da prima della crisi (+4%), seppur continui ad assestarsi su livelli inferiori a quelli medi europei. L’incremento della disoccupazione è diretta conseguenza di una normativa che non ostacola i licenziamenti, compensata da generosi sussidi in caso di disoccupazione (90% dell’ultimo salario e comunque non superiore a 1200 euro) ed efficaci politiche attive. Ciò significa che in condizioni macroeconomiche stabili, i servizi per l’impiego e il sistema della formazione garantiscono un rapido rientro nel mercato del lavoro. In una fase congiunturale negativa, allorquando la domanda di lavoro diminuisce, il reinserimento diviene più complesso. Il livello degli inoccupati inevitabilmente aumenta, così come la spesa pubblica.
In un altro Paese pioniere in tema di flexicurity, i Paesi Bassi, la disoccupazione è invece cresciuta moderatamente (+1,5%). La tenuta del mercato del lavoro è stata favorita dalla scelta olandese di puntare su un altro tipo di flessibilità, quella dell’orario di lavoro. Analizzando le misure adottate per far fronte alla crisi, a differenza di Danimarca, ma anche di Finlandia, Norvegia e Svezia, i Paesi Bassi hanno temporaneamente introdotto, sulla scia dell’esperienza tedesca, alcune misure di sostegno del reddito in caso di riduzione dell’orario di lavoro. Si tratta di interventi che hanno consentito alle imprese di mantenere i lavoratori al lavoro e integrare direttamente agli stessi il loro reddito o compensare i datori per la retribuzione erogata. Così operando, tra l’altro, si riducono le esternalità negative indotte dall’eccessivo turn-over dei lavoratori che riduce l’incentivo ad investire in formazione da parte delle imprese.
In un mercato del lavoro basato sul modello della flexicurity, tuttavia, il punto nodale non è la “sensibilità” del tasso di disoccupazione rispetto all’andamento dell’economia, ma l’entità dell’impatto sui costi sociali e finanziari, oltre all’eventuale tendenza a trasformarsi in disoccupazione di lunga durata. Nel caso danese la formazione continua e una rete efficiente di servizi per l’impiego hanno consentito una riduzione “sostenibile” degli occupati, che non dovrebbe peraltro tradursi in disoccupazione di lunga durata anche grazie ad un turn-over accelerato indotto, a sua volta, da una legislazione “leggera” in tema di flessibilità in uscita. Se però si proietta l’esperienza danese in un’ottica europea, «resta irrisolto il punto dell’efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro in una profonda recessione, quando diminuisce la domanda di lavoro e simultaneamente aumenta la domanda di sussidi», come ha evidenziato l’economista Torben Andersen nell’articolo “A flexicurity labour market in the great recession: the case of Denmark”.
Occorre, in altre parole, chiedersi se il modello della flexicurity sia particolarmente vulnerabile a rilevanti shocks negativi o se tenda a produrre un aggiustamento stabile del mercato del lavoro mediante la crescita dell’occupazione e una significativa rotazione. In tal senso, il confronto Danimarca-Paesi Bassi sottolinea come la legislazione a tutela del lavoro tenda a creare una distinzione più netta tra lavoratori protetti e non protetti, mentre il sistema “generoso” di sicurezza sociale contro la disoccupazione ponga il problema del mantenimento dei sussidi e, dunque, di sostenibilità finanziaria. Lo hanno ben compreso in Danimarca al punto di cominciare a ridurre l’erogazione dei sussidi nel tempo.
Ciò rende ancora più complesso per l’Italia gestire il proprio ritardo. Porre in atto ora la riforma strutturale degli ammortizzatori in un’ottica flexicurity assolverebbe ad una funzione redistributiva e avrebbe il pregio di sostituire una misura (reddito minimo di inserimento) con tutte quelle esistenti che seppur numerose “coprono” soltanto una quota della forza lavoro. Al contempo, rischierebbe di rivelarsi particolarmente onerosa e di non tradursi in nuovi posti di lavoro, come invece auspicato dalla Commissione Europea. Peraltro, la concentrazione geografica della disoccupazione strutturale e dei Neet (né in formazione né al lavoro) nell’Italia meridionale, associati all’assenza di un significativo tessuto industriale, renderebbero piuttosto improbabile il successo delle politiche di attivazione nell’area del Paese dove il bisogno è più forte.
Potrebbe allora rivelarsi in questa fase preferibile riposizionare gli obiettivi sulle relazioni di lavoro, puntando su una contrattazione collettiva nazionale più “leggera” tesa a garantire i livelli minimi, allo scopo di estendere la diffusione della contrattazione aziendale. Questo favorirebbe la possibilità di modulare l’orario di lavoro in base all’andamento del ciclo economico, stimolando la dinamica della produttività e dei salari reali. Ciò non risolverebbe la dualità, ma favorirebbe la formazione di nuovi posti di lavoro, forse più di quanto si riuscirebbe a fare introducendo il reddito minimo di inserimento in questa fase di recessione.