Fisco, dopo Cortina e Roma la strada porta in Svizzera

Fisco, dopo Cortina e Roma la strada porta in Svizzera

Sotto la pressione internazionale la Svizzera sta perdendo il ruolo forziere d’Europa. Rischia di diventare una tappa del viaggio dei capitali verso i piattaforme finanziarie esotiche, considerate più convenienti dagli investitori. Una rivoluzione appena cominciata che tocca banche private, imprese, politica e promette di cambiare sia il panorama elvetico sia quello della finanza off-shore globale che ha prosperato da cinquant’anni a questa parte.

Berna ha puntato molto sui due accordi fiscali con la Germania e la Gran Bretagna che, una volta approvati e in vigore dal gennaio 2013, permetteranno alla Svizzera di mantenere il segreto sull’identità dei correntisti esteri, e l’accesso ai mercati finanziari internazionali in cambio della tassazione decisa e incamerata dagli altri Stati sugli averi patrimoniali (bankable asset: conti correnti, c. metalli, c. fiduciari, azioni, fondi, carte valori, opzioni, prodotti strutturati, obbligazioni, certificati) depositati presso una banca svizzera. Questo da un lato consentirebbe a Londra e Berlino di recuperare rapidamente capitali preziosi – vista la necessità di consolidare i bilanci – tassando i depositi che i propri cittadini mantengono in Svizzera allo stesso tasso domestico. E dall’altro, lascia intatto il segreto bancario che ha fatto la fortuna elvetica negli anni recenti (un’industria finanziaria off-shore da 2mila miliardi di euro).

La nuova legislazione sta però incontrando crescenti resistenze. Il percorso di approvazione è in stallo nell’attesa che in Germania si sgonfi la protesta dei governi regionali che potranno dire la loro al Bundesrat (il consiglio federale tedesco) e, in caso di parere negativo, affossare l’accordo. La posizione dei Länder al di là delle dichiarazioni battagliere, in via informale non sembra di totale ostruzionismo. Risolvere l’impasse spetta però al ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, che finora ha agito in autonomia senza interpellare terze parti. Il Parlamento elvetico nel frattempo non può fare altro che guardare le mosse di Berlino.

«C’è un percorso politico tedesco che bisogna che si sviluppi, ma che secondo noi porterà ad un accordo», spiega Fulvio Pelli, presidente del Partito Liberale Radicale svizzero, che fa parte della coalizione di governo. «Da quel momento sarà più facile iniziare la procedura parlamentare in Svizzera. Scheauble dovrà intervenire sull’opposizione e sui Länder, ma non sappiamo ancora bene come voglia gestire la partita. Alla Svizzera non è ancora stato chiesto di rinegoziare nulla. Aspettiamo che si sblocchi la situazione tedesca e, dopo il messaggio del Consiglio federale, penso che in sei mesi la questione da parte nostra potrà essere risolta. E sono convinto che ci sarà una decisione favorevole».

Non c’è la sicurezza totale di ottenere un parere positivo unanime, visto che le posizioni dell’estrema destra e dell’estrema sinistra non sono chiare: potrebbero mettersi di traverso nel tentativo di frenare l’azione di governo. «Ma la probabilità che ci sia consenso è molto alta – dice Pelli spiegando che – i partiti del Centro, compresi il Partito Liberale Radicale (Fdp) e Partito Popolare Democratico (il democristiano Cvp), sono favorevoli: sono già il 40 per cento dei voti». Quanto basta per avere spazio di manovra. La destra dell’Unione democratica di centro (Udc) in teoria dovrebbe essere d’accordo, ma visto che attualmente è sulla difensiva «potrebbe fare opposizione non di merito ma solo per distanziarsi dal Governo», ricorda Pelli. E a sinistra, Verdi e Socialisti (tradizionalmente contrari alla conservazione del segreto bancario), non hanno ancora espresso alcuna indicazione.

Ma la Svizzera deve guardarsi anche da Bruxelles. L’Unione europea ha attaccato frontalmente la natura stessa degli accordi, che infrangerebbero le direttive fiscali comunitarie. «La Commissione è stata molto chiara sul fatto che le aree coperte dalla legislazione europea non possono essere incluse in accordi bilaterali tra stati membri e paesi terzi», aveva dichiarato la portavoce del commissario Algidas Semeta mettendo in guardia su possibili azioni legali da parte di Bruxelles. Singolare che il rimprovero sia diretto anche alla Germania, alfiere dell’unione fiscale europea quando si tratta di sanzionare chi sfora i limiti di bilancio, ma capace di muoversi da sola per consolidare le proprie finanze di Stato.

Eppure la Commissione avanza pretese su un campo che non è di sua totale competenza. Infatti, la rivendicazione di Bruxelles si basa sull’esistenza di un accordo Svizzera-Ue in materia di tassazione del risparmio (tassazione sugli interessi del 35%) che riguarda solo le persone fisiche ed è diverso dalla tassazione alla fonte dell’accordo anglo-tedesco che riprende oltretutto le stesse aliquote nazionali, quindi a discrezione degli Stati. «Vedremo come si risolverà questo contenzioso, ma sarebbe una vera sorpresa se la Germania cedesse alle pressioni della Commissione», nota Pelli.

Infatti, come spiega l’avvocato e notaio Giovanni Stucchi, fiscalista dello studio luganese PSMLaw S.A.: «Gli accordi conclusi con Germania e Regno Unito, molto simili fra loro, prevedono che il contribuente tedesco o inglese che abbia un conto in Svizzera paghi una determinata imposta una tantum per saldare il passato (aliquote comunque piuttosto elevate, calcolate in base ad una formula matematica assai complessa, che vanno dal 19% al 34% a seconda di diverse circostanze fra cui la data di apertura del conto, e che si calcola saranno in media superiori al 20%) e poi paghi, su qualsiasi tipo di reddito generato dal conto, le imposte dovute nel proprio paese di sede (con la Germania, aliquota unica pari al 26-27%; con il Regno Unito, aliquota differenziata a seconda del tipo di reddito: 48% sugli interessi, 40% sui dividendi e 27% sugli utili in capitale); e queste imposte sono prelevate e riversate dal fisco svizzero al fisco tedesco o inglese, per cui il fisco svizzero, a proprie spese, funge in realtà da sostituto di imposta».

La dogana di Brogeda (Flickr – Ivana di Carlo)

In base agli accordi a partire dalla data d’inizio nessun contribuente tedesco o inglese potrà più avere conti in banche svizzere se non accetterà questo meccanismo. «Ma non è tutto – aggiunge Stucchi – per assicurare che non vi siano aggiramenti, le banche svizzere avranno il divieto (verificato dall’autorità di controllo) di assistere trasferimenti di conti verso altri paesi: la Svizzera trasmetterà alla Germania e al Regno Unito una “mappatura” anonima ma con dettagli assai interessanti quali numero totale di conti, suddivisione, etc. dei fondi prelevati da cittadini tedeschi e inglesi con relativa destinazione (Bahamas, Singapore, etc.). Ogni anno il fisco tedesco e inglese potranno introdurre (in aggiunta alle richieste di informazioni sulla base delle nuove convenzioni contro le doppie imposizioni modificate) un certo numero di richieste di informazioni riguardo loro contribuenti».

Secondo Paolo Bernasconi, socio dello studio legale Bernasconi, Martinelli, Alippi & Partners di Lugano «al momento attuale ci si attende che Bruxelles prenda posizione formalmente, indicando se e quali norme degli accordi fiscali con la Germania e l’Inghilterra siano incompatibili con il diritto europeo. Anche se questo esame terminasse individuando alcune norme incompatibili, gli accordi per questa ragione non sarebbero ancora caduti: basterà infatti modificarli in quelle parti che Bruxelles dovesse ritenere incompatibili con il diritto europeo».

Infatti sono stati concepiti come fossero un “cubo di Rubik”: anche tolto un pezzo rimarrebbero validi per le parti restanti. Bernasconi, che è anche docente di diritto bancario, aggiunge: «L’accordo nel suo complesso potrebbe rimanere valido e conservare tutto il suo interesse sia per la Svizzera che per gli Stati membri dell’Unione europea. È comprensibile che gli altri Stati, Italia compresa, in questo periodo, mantengano una posizione attendista, in attesa di una presa di posizione formale da parte di Bruxelles e, se necessario, di un aggiustamento del contenuto degli accordi già firmati dalla Svizzera con la Germania e l’Inghilterra».

Il presidente del Consiglio italiano, Mario Monti, nella conferenza stampa di fine anno ha dichiarato che l’esecutivo sta studiando il dossier, per la Svizzera è l’apertura di una possibile e futura trattativa, o almeno così è stata letta la vicenda dalla stampa elvetica. Ma è presto per dirlo (la Svizzera è ancora nella “lista nera” dei paradisi fiscali per l’Italia, e in caso di accordo questa barriera cadrebbe). «Da un punto di vista della giustizia e dell’equità fiscale – commenta Bernasconi – lo scambio automatico di informazioni è quello più soddisfacente. Ma dal punto di vista dell’incasso dei crediti fiscali è invece molto più efficace il cosiddetto “modello Rubik”, che, per questa ragione, ho battezzato “lampada di Aladino”: infatti, grazie a questi nuovi accordi, il fisco italiano, invece che informazioni in base alle quali avviare lunghe ed incerte procedure di accertamento e di incasso, riceverebbe in breve tempo, senza nessuna spesa e con precisione elvetica, le somme dovute dai contribuenti italiani a titolo di imposte sottratte nel passato nonché a titolo di imposte sui redditi futuri di ogni natura». Se per esempio l’Italia firmasse un accordo simile con una tassazione secca del 20% otterrebbe in prima battuta 26 miliardi di euro di incasso (ammontano a 130 miliardi i capitali italiani depositati in Svizzera, secondo i calcoli de La Stampa).

Dal punto di vista svizzero si ha l’impressione che «chi avrebbe più da guadagnare da un accordo tipo Rubik sarebbe proprio l’Italia – afferma anche Stucchi – perché avrebbe l’occasione di prelevare in pratica un patrimoniale molto sostanziosa su tutto il passato e, per il futuro, avrebbe la certezza che non vi sarebbero più conti bancari aperti in Svizzera che sfuggono a tassazione».

Gli accordi modificheranno anche il panorama bancario. Infatti all’entrata in vigore 51 miliardi di dollari (40 in euro) potrebbero lasciare i forzieri svizzeri, secondo uno studio di Booz&Co., un’azienda di consulenza finanziaria. Ma la “fuga” è già cominciata. «Ci aspettiamo che nei prossimi 18 mesi il disinvestimento di capitali accelererà fino all’inizio dell’accordo nel 2013», si legge ancora nello studio, secondo cui i tedeschi detengono 172 miliardi di euro in Svizzera (60% non dichiarati) mentre gli inglesi 50 miliardi circa (63% non dichiarati).

«Anche se ci fosse un accordo europeo condiviso dalla Svizzera ciò non impedirebbe ai risparmiatori di fuggire», commenta Giancarlo Cervino, direttore del Centre for International Fiscal Studies di Lugano. «A prescindere da accordi multilaterali o bilaterali, se ci fosse come alcuni pensano nel 2017 la caduta del segreto bancario in Europa (in base a una proposta di direttiva europea, ndr) sarebbero in molti a cercare di spostare i capitali anche prima che questo avvenga».

Ubs, il maggiore istituto svizzero – che insieme a Credit Suisse ha negoziato direttamente l’accordo in collaborazione con il governo elvetico – stima che 30 miliardi di franchi (24,6 miliardi di euro) rischiano di volare via dalle proprie casse come risultato della nuova normativa. Le mete preferite non sono difficili da individuare, in prima linea ci sono le piattaforme asiatiche. Ad esempio, la Banca della Svizzera Italiana (Bsi) – che fa parte del gruppo Assicurazioni Generali – di recente ha aperto una sede a Hong Kong che va ad aggiungersi a quelle già operative a Singapore. Segno che gli istituti svizzeri si stanno preparando a fare da ricettori dei capitali in Asia. Ma la certezza di Berna è che il mondo dell’off-shore sia al tramonto e che il denaro nero non abbia futuro. Meglio quindi chiarire il più possibile i rapporti con gli Stati interessati anziché rimanere nell’ombra, con la speranza che anche altri seguiranno il modello elvetico.

«L’eventuale fuga di capitali verso piazze offshore e/o il rientro di capitali verso i paesi di residenza dei titolari dei conti – precisa Stucchi – sono già stati “messi in conto”, ma la previsione è che grazie all’apertura dei vari mercati interni (tedesco, inglese) le banche riusciranno a recuperare buona parte di questi capitali. Inoltre si pensa che se la Svizzera riuscirà ad imporre il modello Rubik presto anche altre piazze primarie on-shore (Lussemburgo, Austria, Singapore, Hong Kong, Bahamas) e quelle off-shore dovranno per forza seguire la stessa via: non per nulla gli accordi prevedono la consegna della “mappatura” agli altri Stati».

Certo, i vantaggi per chi rimane in Svizzera sono anche altri (discrezione, affidabilità, stabilità politica e finanziaria, una moneta forte) e in questo confidano i banchieri. Che non possono però evitare di fare i conti con la crisi peggiore dal 1929 e la necessità di consolidarsi tramite fusioni e acquisizioni: un altro grande cambiamento che gli accordi fiscali hanno accelerato. Credit Suisse, ad esempio, ha in programma di integrare la piccola banca privata Clariden Leu, fondata 250 anni fa. Sempre a novembre la svizzero-brasiliana Safra Group ha concluso la trattativa per l’acquisto di una quota di controllo nella Bank Sarasin&Cie lasciando a bocca asciutta la concorrente di Zurigo Julius Baer Holding che da tempo sta cercando di espandersi per ridurre la pressione sui margini a copertura dei crediti a rischio e aveva puntato proprio sulla filiale di Basilea della Sarasin.

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