Obama vende fumo ma non c’è nessuno meglio di lui

Obama vende fumo ma non c’è nessuno meglio di lui

Durante gli ultimi due o tre giorni e sino a poche ore fa chi, almeno da un numero Ip della zona degli Usa dove vivo, andava su YouTube per guardarsi un video doveva prima sorbirsi una pubblicità anti-Obama che contrapponeva la triste realtà dei fatti ad alcune delle roboanti promesse avanzate nei suoi anteriori discorsi sullo stato dell’Unione. Anche se, vada come vada, quello di questa sera non potrà mai essere usato in questa esatta funzione, sono certo che avrebbe offerto un gran numero di spunti.

Ieri ho ascoltato un discorso sullo Stato dell’Unione magnificamente populista ma vuoto di proposte concrete. Lasciamo da parte, non perché non rilevante ma perché troppa carne al fuoco rischia di soffocarlo, la parte che aveva a che fare con la politica internazionale degli Stati Uniti. A me sembra un terreno dove l’amministrazione Obama abbia fatto relativamente meglio e – nonostante la persistente macchia di Guantanamo ed i continui fallimenti sulla questione Israele-Palestina – sia riuscita a cambiare rotta rispetto a quella intrapresa da Bush&Cheney ed a raggiungere in modo dignitoso alcuni degli obiettivi che si era prefissa. Quanto questi parziali successi si debbano ad Obama medesimo e quanto alla notevole professionalità e caparbietà di Hillary Clinton (Joe Biden, di certo e come previsto, non è servito assolutamente a nulla) lo scopriremo solo fra qualche decennio, quando qualche storico si studierà gli archivi presidenziali che sono oggi riservati.

I successi, però, si fermano qui: sul terreno delle questioni interne e, soprattutto, su quello economico-sociale, i tre anni di Obama non hanno praticamente nulla da offrire al proprio elettorato che sia anche solo lontanamente in linea con le promesse fatte durante la campagna elettorale del 2008. È ai temi di quella medesima campagna elettorale che Obama è ritornato confermando che se sono ancora validi e spendibili è perché nulla di quanto aveva promesso è stato realizzato. E niente di miracoloso, anzi forse letteralmente niente in senso stretto, accadrà con grande probabilità fra oggi e la fine dell’anno.

Se l’economia Usa completerà nei prossimi dodici mesi il proprio processo di aggiustamento e guadagnerà nuovamente un sentiero di crescita stabile sarà solo grazie ai suoi meccanismi interni di aggiustamento e non certo grazie ad alcuna delle politiche governative adottate le quali hanno oscillato fra il fallimentare (i vari “stimoli”) ed il confuso (sistema creditizio, riforma sanitaria). Cosciente di questo Obama ha afferrato al balzo la grande opportunità offertagli dalle dichiarazioni dei redditi di Mitt Romney: non capita tutti i giorni che il tuo più credibile avversario renda pubblico di pagare una percentuale risibile di imposte su redditi di decine di milioni di dollari all’anno! Occasione perfetta per rilanciare l’idea di un ritorno alla mitica età del sogno americano, quella in cui la classe media prosperava perché il suo reddito disponibile cresceva in linea con quella nazionale mentre i grandi ricchi pagavano tasse apparentemente altissime e la diseguaglianza del reddito si attenuava.

Ammesso e non concesso che quell’età sia davvero esistita, questa amministrazione di certo non ha idea di come ritornarci e l’opposizione repubblicana ancor meno – quest’ultima neanche ci aspira: preferisce blaterare di un’età ancor più remota ed immaginaria, quella dei coloni che liberi ed uguali si muovevano verso ovest mentre lo stato federale non esisteva. Questa incapacità non è tutta attribuibile alla debolezza della coalizione obamiana: essa è obiettiva e non credo vi sia oggi sul terreno una “soluzione” credibile a quel problema. Vi è, da un lato, la crescente diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e la concentrazione della ricchezza nello 0,3-0,1% più benestante.

Pensare che questo fenomeno – particolarmente accentuato negli Usa ma osservabile globalmente – possa essere risolto con una riforma fiscale, per quanto drastica, vuol dire fare del populismo. È effettivamente grave che Romney paghi in media solo il 13% d’imposte sul reddito mentre io, con un reddito pari ad una frazione del suo, devo fronteggiare un’imposta media più che doppia. Ma la capacità dei Romney di eludere le imposte dipende in parte dagli stessi fattori che rendono il suo reddito così (ingiustificatamente?) alto: i capitali che egli muove a livello globale sono infinitamente più mobili e fungibili del mio rigido lavoro, ed il potere di monopolio che lui ed i suoi simili riescono ad esercitare nei mercati in cui operano non può che suscitare invidia ad una categoria professionale come la mia che, seppur privilegiata, è assai aperta alla concorrenza.

Detto altrimenti: pensare che Romney sia l’analogo Usa del medico o del commerciante evasore con villa a Cortina vuol dire non aver colto il problema. E come si possa riuscire a mantenere investite ed operanti nel paese il tipo di risorse finanziare che i Romney di questo mondo controllano, mentre le si tassa al 35% in media, purtroppo mi sfugge. Ed è un purtroppo sincero: il tipo di cambiamenti a cui bisogna pensare va al di là degli aumenti di imposte per i ricchi.

Ugualmente complesso è l’altro pezzo del dilemma che Obama non ha neanche menzionato e su cui i suoi avversari repubblicani hanno fatto e faranno populismo a buon mercato: la spesa pubblica fuori controllo ed il conseguente deficit, ossia la sindrome italiana. Vi sono, di fatto, solo due capitoli tagliando i quali si può avere un effetto sostanziale sulla spesa: sanità per gli anziani e difesa. Il resto son briciole: lo stato Usa non è l’orgia di sprechi ed inefficienze dell’italiano. L’uscita dall’Iraq aiuterà mentre quella dall’Afghanistan sarà politicamente molto pericolosa perché, se dovesse avvenire, riconsegnerebbe il paese ai Talebani.

Detto altrimenti: le scelte strategiche e lo scenario mondiale forzeranno qualsiasi amministrazione a continuare a spendere e spandere in quel settore. Rimane solo Medicare, ossia una mina esplosiva che nessuno osa toccare. Quindi? Quindi Obama proporrà presto un qualche simbolico aumento delle imposte per i “grandi ricchi” (sarà interessante vedere da che cifra partiranno) che non verrà trasformato in legge ma servirà per la campagna elettorale e che, anche se venisse adottato, non ridurrebbe di uno iota la diseguaglianza che continuerà per la sua strada assieme alla spesa pubblica. Il sogno della classe media americana ritornerà utile fra un paio d’anni, per un nuovo discorso sullo Stato dell’Unione.

*Department of Economics – Washington University in Saint Louis

Il discorso sullo Stato dell’Unione di Barack Obama

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